Spirito, superstizione e la vera magia

Arte, Cultura & Società

Di

La vita è un viaggio, non una destinazione” 

Ralph Waldo Emerson, Diario delle citazioni, 1995.

di Carlo di Stanislao

Se si parla di magia e di italianità, non si può non avere a che fare con la superstizione. Ne è un esempio quella rocambolesca di Totò, che in moltissimi film la utilizza come strumento di sopravvivenza per scongiurare i mali della vita. Perché superstiziosi lo sono tutti. Lo sono i ricchi, che devono preservare la loro condizione agiata, e lo sono i poveri che devono venerare la dea bendata con la speranza di scongiurare la miseria. I mali e la sfortuna, si sa, non fanno distinzioni di classe. Lo ha capito bene Vanna Marchi, che ha intercettato e messo a valore la necessità degli uomini sofferenti e soli di credere a tutto, persino al nulla. Rituali per il malocchio, numeri fortunati per vincere al Superenalotto, ma è possibile credere ancora a tutto questo? Sì, eccome. Basti pensare come poco più di quarant’anni fa la politica abbia fatto ricorso alla magia, in una delle pagine più nere della nostra Storia.

Se mettessimo per un attimo da parte le ragioni culturali della storia magica del nostro paese, il business della superstizione, il folclore ancora vivente delle processioni e le fandonie degli astroinfluencer, e ci chiedessimo cosa sia, in verità, la spiritualità, cosa potremmo rispondere? La spiritualità di cui tutti parlano, in effetti, esiste? E se esiste, come si manifesta? Com’è fatto un essere umano “spirituale”? A me par di percepire una visione individualistica, egocentrica e narcisistica della spiritualità, oggi. Sembra proprio che essere spirituali non significhi più avere, in effetti, uno spirito nobile, grande, sensibile, ma piuttosto uno spirito “pulito”, performante, autogiustificativo e che trova il suo fine solo nel proprio benessere.

Pulire i propri chakra, trovare il proprio centro, stare bene con se stessi sono formule che sentiamo ripetere ogni giorno e che sembrano far parte della stessa ricetta con cui la nostra società impasta noi individui, allenati interiormente a sopportare le necessità e le regole sempre più stringenti della macchina capitalista.
Allo stress del lavoro asfissiante opponiamo i trattamenti ayuverdici, ai ritmi insostenibili delle città lo yoga, all’ingiustizia degli stipendi e alla competizione nei rapporti sociali, la mindfulness.

Toppe esistenziali a buon mercato per sopravvivere senza lamentarsi, e continuare a produrre per il progresso delle nostre evolute società, in cui è lo stesso mercato a creare il problema e ad offrirci i rimedi. Chissà se invece, paradossalmente, la tanto menzionata spiritualità non si trovasse fuori da noi, nelle pause che ci concediamo da noi stessi, dai nostri obiettivi, dai nostri business plan quotidiani, e non fosse invece una forma di generosità non affettata, guidata da un senso comunitario, per una comunione di essere umani e non di clienti e consumatori. E alla fine si diventa cinici e si rischia di credere che il nostro esercizio spirituale quotidiano è continuare a far vivere questo immenso altare di carta, tempio mobile e scostante dei nostri dubbi, religione senza Dio, senza salvezza per noi e senza pretese di salvare qualcuno. Che disperante tristezza!

L’ ateismo imperante nel mondo di oggi sostiene che Dio è quello spazio che, non ancora esplorato e conquistato dalla ragione, rimane così insopportabilmente sconosciuto da richiedere di essere tappato dalla divinità, che è il tappabuchi per eccellenza. E gli intellettuali più riconosciuti di oggi paragonano il luogo dello spirito alla definizione hic sunt dracones, che designava originariamente regioni geografiche inesplorate, ignote e presumibilmente pericolose e che oggi indicherebbe quello spazio che fedeli e non fedeli tendono ad attribuire a Dio: quello della domanda che, in attesa di risposta razionale più credibile, continua a rimanere tristemente insoluta e bisognosa di un rimedio temporaneo.

Leggendo Camus vengono i brividi e Camus ha molto influenzato il pensiero odierno in cui in definitiva il corpo rappresenta il luogo in cui nasce il conflitto dell’uomo, tra la felicità ottenuta attraverso la bellezza e il dovere di essere felici in un mondo senza Dio. In questo modo l’uomo perde Dio e guadagna l’Io. A Dio non è imputata la colpa del male che pervade il mondo, il male proviene da un’insensatezza metafisica necessaria all’umanità affinché possa prendere coscienza dell’assurdo. La felicità può essere raggiunta attraverso l’appropriazione della propria vita con la consapevolezza di non poter ambire ad un miglioramento della stessa, ma di essere accomunati con l’intera umanità dal medesimo destino.

Gli esseri umani devono imparare a convivere con l’assurdo e questo potrebbe far pensare che tale convivenza debba essere di tipo passivo, occorre invece, che l’uomo si muova all’interno dell’assurdo inaugurando una lotta contro qualcosa che è molto più grande di lui ed è per questo che Sisifo rappresenta l’esempio da seguire, poiché vive consapevolmente la sua condizione. Sisifo accoglie il suo destino e lotta contro la passiva accettazione, considerando il macigno sulle sue spalle parte integrante del suo esistere, traendo dalla sua condizione la forma più autentica della felicità. Ma questo tipo di pensiero molto primitivo e magico porta ad una nuova disperante conclusione: Dio nella vita comune è ricercare una propria dimensione morale e allo stesso tempo collettiva e condivisa, che possa portarci a vivere e non semplicemente a sopravvivere, ad essere e non semplicemente ad esistere, in una delle epoche più “assurde” in cui potessimo essere gettati. Ma come vivere ed esistere senza la presenza di un divino in noi e di un Dio generatore?

“Senza Dio”, l’ultimo libro di Mario Adinolfi uscito nel luglio scorso, è un affresco sulla crisi dell’Occidente scristianizzato che rischia di soccombere a casa dell’assenza di fede. «La speranza dei nuovi atei di vedere un mondo senza religione è probabilmente vana come la speranza per una società senza aggressività o un mondo senza morte».

Lo afferma il filosofo Roger Scruton sullo Spectator. Secondo il filosofo britannico, gli atei sbagliano bersaglio quando pensano di poter estirpare la religiosità delle persone attaccando Dio. Infatti, spiega Scruton, il bisogno del «sacro» è innato nell’essere umano ed è inestirpabile.

I nuovi atei, osserva Scruton, affermano che «non c’è spazio nella visione scientifica del mondo per uno scopo originario, e quindi non c’è spazio per Dio». «Oggi vanno oltre», spiega Scruton riferendosi agli atei “evangelizzatori”: «Ci dicono che la storia ha dimostrato che la religione è talmente tossica che dobbiamo fare del nostro meglio per eliminarla». Vedono la perdita della religione come «un guadagno morale». Ma secondo il filosofo «hanno sbagliato obiettivo». Essi infatti si battono contro un dio “astratto”, concettuale. Cercano di estirpare qualcosa che non appartiene alla gente comune. I fedeli comuni non vedono infatti Dio come un’astrazione, come una «risposta a una domanda cosmologica». Piuttosto, afferma Scruton, lo incontrano spesso nell’esperienza, «nello sforzo di vivere con gli altri», quando «si imbattono in momenti, luoghi, relazioni ed esperienze che hanno un carattere numinoso», dove cioè si avverte la presenza di qualcosa che non appartiene al mondo.

“Cos’è il sacro, e perché le persone si aggrappano ad esso?”, si chiede Scruton. Secondo il filosofo britannico, «le cose sacre sono la “presenza reale” del soprannaturale, illuminato da una luce che risplende dai confini del mondo». Per comprendere cosa questo significhi, bisogna guardare all’esperienza e «osservare la trasformazione che il sacro effettua nelle nostre percezioni». «Una persona con un senso del sacro può condurre una vita consacrata, vale a dire una vita che è ricevuta e offerta in dono». Ciò è visibile, spiega Scruton, «soprattutto nei nostri rapporti con coloro che ci sono cari». Basti pensare a quante poesie sono state dedicate alla parola «Tu».  Questo, spiega Scruton, prova che l’essere umano ha bisogno «di essere assorbito da qualcun altro, di vedere il tu come una chiamata da oltre l’orizzonte sensoriale». «Questa esperienza», visibile nei rapporti con i propri cari e centrale nell’arte poetica, «non è accessibile all’indagine scientifica», osserva Scruton, infatti «dipende da concetti, come la libertà, la responsabilità e l’Io, che non hanno posto nel linguaggio della scienza. L’idea stessa di “tu” sfugge alle spiegazioni».

Un modo senza Dio, pertanto, è un mondo fatto di “io” ma senza “tu” e, soprattutto, senza “noi”. Un mondo pervaso dalla superstizione più oscura e del tutto priva di vera “magia”, che viene dal greco μαγεία e che significa grande, ovvero la cosa più grande, una forma superiore di conoscenza cui corrisponde una concezione del mondo retto da forze spirituali, intermedie tra l’uomo e la divinità.

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