“Lavoro migrante”: Alexander Nurulaeff

Arte, Cultura & Società

Di

di Francesca Dallatana

Il mare di Barents è una decorazione permanente. Un silenzioso tatuaggio. Graffio e pianto di nostalgia senza lacrime. Nella memoria profonda dell’esistenza di chi ha toccato con gli occhi l’ultima costa di Russia. Quella sotto il circolo polare artico. Luoghi dei quali non si dice il nome.

Capricci di freddo, sferzate di onde bianche e taglienti di un mare cupo e pulito su una spiaggia di massi antichi e grigi. La temperatura crolla fino a meno cinquanta e più. La vita è semplice e dura. Si impara a resistere. A vincere sé stessi prima del tempo atmosferico e di quello cronologico implacabile, coriaceo e lento.

Alexander Nurulaeff tace il nome del luogo di addestramento del servizio militare. Un altro tempo e un’altra Storia. Ma niente informazioni. In nome di un patriottismo rispettoso che lo avrebbe visto attivo in Afghanistan se i russi non si fossero ritirati prima del suo arruolamento.

Due anni: la durata della leva. Per lui un periodo più lungo. Per indisciplina.

Il freddo forgia la mente. Deterge il superfluo. La fame impone la dominanza di azioni finalizzate alla sopravvivenza. “So che cosa è il freddo. So che cosa è la fame. Per garantire al corpo la sopravvivenza abbiamo mangiato di tutto. Per sopravvivere in situazioni estreme devi uccidere. E come qualcuno ha detto in un film americano: imparare a uccidere è facile; difficile smettere. Il servizio militare al circolo polare artico è un corso di preparazione alla vita”: dice l’artista russo-parmigiano sulla sua formazione emotiva.

Non si insegna la tenacia e non la si impara. La si apprende per induzione dall’ambiente circostante, sociale oppure naturale che sia.

Vengo da una famiglia di grande cultura. E da una tradizione patriottica. Sono grato a mio padre per avermi spinto a fare il servizio militare. Non lo avrei fatto se non mi avesse ricordato che in famiglia sia lui che mio nonno avevano fatto quell’esperienza. Un addestramento fisico in un luogo impervio. Una preparazione alla vita che trasferisce abilità tecniche, sociali e psicologiche.”, lo ricorda nelle battute finali dell’intervista. Ma è solo una variazione sul tema del concerto più lungo e articolato della sua vita artistica. Sul mare di Barents si impara a sopravvivere.  Si comprende nel profondo il valore della vita. E’ il confine da sfidare. E’ un tema della sonata che racconta l’esistenza dell’artista e neanche il primo. Perché al circolo polare il talento di Alexander Nurulaeff già da tempo respira fuori dal mare in tumulto dell’ispirazione. Che non si ferma davanti a niente. Nel salotto parmigiano stracolmo di libri e di Russia e di arte in diverse modulazioni l’opera più evidente nella sua originalità è una tela che riporta una scena di vita sociale liberamente interpretata. Il tratto, i colori, la composizione grafica sono aggrappati in equilibrio a un ordito materico. E’ uno straccio per i pavimenti. A quattordici anni, nella città di Ekaterinburg, un giovane Alexander Nurulaeff ha trasformato uno dei cenci usati per lavare i pavimenti della scuola nell’opera incorniciata nel salotto parmigiano: “L’ho acquistato a decenni di distanza. Lo avevo venduto a duemila dollari. Sapevo dov’era. Ho voluto riprendere quel pezzo di memoria. Per riportarlo nella mia vita.”

Go west

Le fasi temporali ispirate all’arte e agli spostamenti sulla carta geografica d’Europa sembrano confuse in un groviglio emotivo spettinato. Che prende la forma di un ordito, trama sulla quale si sedimenta l’ispirazione artistica di un versatile talento.  La pittura, la visione figurativa, l’abilità nel tratto e nel cogliere la vita nella sintesi del segno di una pennellata sulla tela, spinge l’artista russo in Spagna, fino a Marbella. Va alla ricerca di Picasso e di Dalì, della terra che ha ispirato la loro espressione artistica. In terra spagnola non si accendono né il feeling né la miccia dell’esplosione artistica. E ritorna in Russia dove lui, Alexander Nurulaeff, è conosciuto come artista e come artigiano del colore e del batik.

È il maestro della seta, ispiratore di arte pittorica e di capi di abbigliamento raffinati e apprezzati da una élite. Ma la Russia è cambiata. Dopo un’anticipazione della crisi del sistema, sottotraccia e datata anni Ottanta colta soprattutto dagli studiosi e da pochi giornalisti, l’Unione sovietica va in frantumi. “Eravamo una federazione di Repubbliche conchiuse. Studiavamo, programmavamo il futuro nel rispetto di aspettative e talenti. Avevamo tutto. In Russia c’era tutto.”, ricorda l’artista. Ad un certo punto la macchina organizzativa si è rotta, il meccanismo inceppato. Il confine tra la Russia e tutto ciò che sta fuori diventa labile e poroso. All’apparenza in Occidente tutto è possibile. La fatica dell’integrazione non la si intuisce dall’altra parte della cortina di ferro. E l’artista ritorna in Europa occidentale, questa volta in Italia. Sono alte le aspettative: “Credevo di riuscire a lavorare come artigiano e artista dell’arte su seta.” Ma non è facile l’integrazione professionale. Lento, l’inizio. In salita, socialità e conoscenza delle dinamiche di relazione

Razzismo di difesa

Respirare nel freddo, a testa bassa con le narici protette. I fondamentali del circolo polare valgono dappertutto. Respirare per vivere. “Con scarpe e vestito eleganti.  Sono arrivato così in Italia. Ma dovevo sopravvivere. Ho cercato un lavoro e ho accettato quello che ho trovato. Per diverso tempo sono passato da un lavoro all’altro: muratore, operaio in fabbrica, agricoltore, bagnino.”: essenziale nel racconto, serio nel tono: la cronaca della prima fase italiana. La raccolta dell’uva in un’azienda agricola ai confini con Reggio Emilia è una delle fotografie di lavoro migrante: “Lavorare tutto il giorno. Una pausa per il pranzo. Mi aspettavo di potermi sedere all’ombra. E di mangiare in modo normale, non dico nel salotto di casa. Ma di stare all’ombra, seduto su una sedia. Invece: due croste di pane con una fetta di prosciutto, nello spiazzo esterno alla casa colonica. Questo il trattamento per noi operai addetti alla raccolta dell’uva.” Macchine da lavoro, non persone. “Un trattamento poco rispettoso rivolto a chi arriva da un’altra cultura”, commenta. Un fenomeno di sfruttamento e di razzismo riscontrato dall’intervistato non solo in ambito produttivo.

Parla di razzismo, Alexander Nurulaeff. Lo chiama per nome. “Il razzismo è una forma di difesa. L’ho vissuto anche in ambienti culturali all’apparenza immuni e l’ho osservato in prima persona. Tutti siamo razzisti. Per difenderci da ciò che non si conosce. Ho frequentato il Conservatorio dove ho studiato canto. Sottotraccia e sotto la trama delle relazioni sociali il razzismo si è manifestato nella forma insidiosa del dileggio per l’accento e la pronuncia della lingua oppure per una modalità di relazione non convenzionale. Il razzismo è la difesa di ciò che sta dentro ai confini dell’abitudine culturale.

Fasi e crasi del talento

L’arte, invece, mette i piedi fuori dai confini. Il talento di Alexander Nurulaeff è andato e tornato da territori artistici diversi. In altrettante fasi temporali. Ma non si è mai stabilito in un luogo, in un atelier. “Per fare ho bisogno di silenzio, del pensiero. L’atelier è un luogo sociale, dove il tempo si disperde. L’arte ha bisogno di solitudine.” Lo dice dal salotto di casa. L’arte ha bisogno del soffio creatore dell’energia d’artista. A trasmetterla all’artista la babushka Ira, la bisnonna sciamana Irina. “Ho trovato i diari delle sue terapie e degli incontri con i suoi pazienti, durante uno dei miei ritorni a Ekaterinburg. Imponeva le mani. Mi ha promesso protezione.” E protezione ed energia positiva Alexander Nurulaeff ha ricevuto in dote insieme ai talenti.

Sulle pareti di casa: sguardi, chiome ribelli e sfuggenti, ritratti, volti di donne: una di queste è la sua musa ispiratrice. Accanto ai ritratti, cornici pregiate: opere curate e raffinate quanto i dipinti. Un grande fotomontaggio riporta la figura dell’artista in diversi momenti del suo attuale impegno di arte e di artigianato: scarpe d’autore. Una ideale macchina del tempo per ridare vita alla pelle delle scarpe vissute ma affettivamente importanti per chi ha lungo le ha indossate. Scarpe che ritornano a una vita nuova dopo avere visitato territori della vita e dello spazio. E scarpe nuove che indossano il tempo per interpretare uno stile, quello raffinato della cura della vita e del pensiero.

I territori esplorati dal talento artistico di Alexander Nurulaeff si sono intrecciati, nelle diverse fasi temporali. “Le fasi della pittura, del ritratto e dei dipinti, e quella delle cornici si sono succedute. I periodi sono stati brevi. Il periodo musicale, quello del canto e delle attività come attore-mimo a teatro è stato più lungo. Nella fase attuale, dedicata all’artigianato della calzatura d’autore, il tempo si sta dilatando. Spesso le mie capacità artistiche si intrecciano.”, spiega l’intervistato.

Il laboratorio di pelletteria è uno studio attrezzato, in una delle stanze della casa, per l’applicazione dell’arte della cura e della pazienza mutuata da una manualità eccellente. Il fare è una sfida. “Mi piace creare ciò che mi piace. E dare vita a ciò che la mia musa ispiratrice desidera.”

La prossima sfida artistica? “La sartoria. Mi piacerebbe creare abiti.”, risponde. Nella memoria rimane impressa la difficoltà di dialogo professionale del primo periodo italiano di lavoro migrante quando l’intervistato pensava fosse facile proporre batik e disegni ai setifici di Como e dintorni. Per poi vederli frammentati, suddivisi in pezzi, e più di una volta rubati e riproposti in versioni modificate. Sartoria come crasi delle fasi precedenti e attuale della memoria del lavoro migrante.

Matrioska di confine

La Russia non soccombe. Si insinua. Dissemina cultura. Dalla madre al seme: arti e ispirazioni dialoganti e conchiuse: è il talento di Alexander Nurulaeff. L’obiettivo è il piacere di fare. Tra arte e artigianato di pregio. Arrivato a Parma dalla catena montuosa di confine tra Europa e Asia, da Ekaterinburg, regione degli Urali. Un piede in Asia e uno in Europa. La mente sulle tele e nel canto lirico e le mani nel laboratorio di pelletteria. La Tosca è l’opera che predilige.

Ma quale è la musica che dal profondo suggerisce ai lettori della Gazzetta dell’Emilia per avvicinarsi alla Russia? “Aleksey Arkipovsky, un musicista interprete della musica per la balalaika. E l’altro spartito è quello magistrale di Michail Afana’evic Bulgakov prestato alla letteratura: Il Maestro e Margherita.”

Sulla parete, più in su rispetto all’ultimo centimetro di altezza da guerriero norreno di Alexander Nurulaeff: una balalaika. In un raffinatissimo salotto di libri, ritratti, cornici preziose. Gioco di specchi che permettono a sguardi e culture di rincorrersi. È la visione dell’Europa futura, nella sintesi di un talento.

Francesca Dallatana

In collaborazione con: www.gazzettadellemilia.it

Fotografia di Giovanni Garritano

Opere di Alexander Nurulaeff

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Traduci
Facebook
Twitter
Instagram
YouTube