Gli errori giudiziari e la “fatica del decidere”.

Attualità & Cronaca

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Il Garante per i detenuti Ciambriello ha calcolato quasi 28 milioni di euro pagati dallo Stato nel 2023 a titolo di riparazione per ingiusta detenzione disposta a favore di diverse persone con 619 ordinanze emesse dalle varie Corti d’appello sul territorio nazionale.

E’ di questi giorni la notizia dell’assoluzione anche in appello del magistrato ordinario Olindo Canali, mandato a giudizio per corruzione (Corruzione in atti giudiziari, il magistrato Olindo Canali assolto anche in Appello – Il Fatto Quotidiano).

Se, come comunicato poco meno di un mese fa dal Garante campano dei detenuti, dott. Samuele Ciambriello, lo Stato ha pagato nel solo anno 2023 quasi 28 milioni di euro come risarcimento per le ingiuste detenzioni subite da almeno 619 persone (Errori giudiziari ed ingiuste detenzioni, il Garante Ciambriello: ecco quanto ha speso lo Stato per questi innocenti (cosenzapost.it) è evidente che in Italia abbiamo un problema.

E tanto più che Ciambriello si è soffermato soltanto sugli indennizzi da ingiusta detenzione, dovuti cioè a coloro che nel corso di un procedimento o processo penale hanno subito una restrizione della libertà personale, in carcere o extramura, e siano stati quindi assolti con sentenza definitiva dai reati loro ascritti, senza fare alcun riferimento al gran numero di errori giudiziari non accompagnati dal carcere, o arresti domiciliari, o altra analoga misura.

A livello empirico, di fronte a una sì gran copia di cantonate giudiziarie, viene da dire che probabilmente, innanzi tutto, i magistrati delle Procure hanno lavorato troppo.

E forse non saremmo lontani dal vero, giacchè l’ottica aziendalistica alla Orwell (con la regola della crescita esponenziale della “produttività” anno dopo anno, nel senso che ogni anno occorre sfornare più provvedimenti rispetto a quelli depositati l’anno precedente) che pervade ormai da anni i luoghi un tempo dominati solo dai codici, dal rigore e dall’intelletto, sta facendo sì che i pubblici ministeri, coloro che “creano” i fascicoli penali in fasce, si sentano costretti non solo a scegliere sempre più di iscrivere le notizie che pervengono all’ufficio, a modello 21 o a modello 44, cioè nei registri delle notizie di reato anziché in quelli degli atti che non integrano o non integrano ancora neppure una notizia di reato; non solo, spesso, si sentano tenuti a dividere (o “stralciare”) in numerosi fascicoli la notizia relativa a più fatti di reato o a più indagati; ma altresì a scegliere, anche per dare maggiore importanza al proprio lavoro e “blindarlo” in una fase anteriore a quella del giudizio, di richiedere al G.I.P. (giudice delle indagini preliminari) l’emissione di una ordinanza cautelare nei confronti degli indagati, ossia di chiedere che il giudice accolga una richiesta di carcerazione o arresti domiciliari prima dell’emissione della sentenza definitiva.

Inoltre, al momento della fatidica scelta, al termine delle indagini preliminari, se chiedere l’archiviazione o il rinvio a giudizio per l’indagato, forse troppo spesso, nel dubbio, il PM (pubblico ministero) propende per la seconda. Così come all’esito del dibattimento, tra il vedere e il non vedere, spesso il PM in sede requirente chiede la condanna.

Anche se la regola generale, nel nostro ordinamento giuridico, e negli ordinamenti sovra o internazionali, è quella secondo cui “in dubio pro reo”: ossia nel dubbio, o se non capisci bene cosa fare per una tua deficienza o per la oggettiva equivocità del quadro probatorio, devi – o dovresti – assumere la decisione più favorevole all’indagato o all’imputato.

Ora, è evidente che ogni qualvolta si dovesse accertare che nel complesso la regola “in dubio pro reo” è stata violata per esigenze di statistica o per deficienze del singolo magistrato o del sistema inquirente, ne discenderebbe senz’altro una facile spiegazione empirica della ragione del gran numero di errori giudiziari.

E’ vero che oltre a questa immaginaria linea Maginot ci possono essere anche casi sporadici di dolo, corruzione, abuso d’ufficio per odio o vendetta. Ma sono comunque casi limite, che non aiutano a comprendere il problema di fondo e ad affrontarlo in modo efficace.

Come ho già scritto nei mesi passati, il lavoro dei magistrati, privo di tutela sindacale (sul punto si legga anche: https://www.corrierenazionale.net/2023/08/21/lincubo-del-giudice-ernesto-anastasio/), viene quantitativamente assegnato al singolo PM e al singolo giudice senza un previo studio aziendalistico sui tempi necessari per leggere un tot numero di pagine, sentire in udienza o in ufficio un certo numero di persone informate, tenere o partecipare a riunioni d’ufficio, fare ricerche di giurisprudenza e dottrina, infine scrivere i singoli provvedimenti, correggerli e firmarli.

C’è però di più, o di peggio, perché comunque quando il datore di lavoro, ossia il Ministro della Giustizia e il CSM (Consiglio Superiore della Magistratura), considera o non considera i tempi necessari per il lavoro dei magistrati, in congruamente tiene conto solo del lavoro materiale ossia di quello che si esprime con azioni visibili: sfogliare un fascicolo o un libro, operare sul pc o sulla consolle, sentire le persone, scrivere, firmare.

Ma non considera mai, ontologicamente e meno che mai scientificamente, ciò che in realtà è il vero fulcro, il nocciolo, il “core business” (per rimanere agli amati-amari termini aziendalistici) dell’attività del magistrato: il decidere.

Il magistrato decide quando stabilisce le priorità da affrontare tra la mole del lavoro giacente sulla scrivania e sugli scaffali; decide quando ammette o meno una prova chiesta dalle parti; decide quali attività inquirenti svolgere o meno; decide sulla sorte del fascicolo una volta terminate le indagini; decide se mandare qualcuno in galera; decide se tenercelo o meno; decide sulle eccezioni sollevate dalle parti; decide nella gestione dell’udienza e dell’ordine nell’udienza; decide con sentenza all’esito dei vari gradi di giudizio; e così ancora, le occasioni e necessità di decisione sono innumerevoli.

Ebbene, le facoltà mentali che possono sostenere un certo numero di decisioni al giorno non sono infinite, questo ormai può ritenersi accertato dalle neuroscienze.

Tanto è vero che vi sono grandi capitani di industria, imprenditori molto noti e molto capaci, e anche politici di alto rango, che hanno limitato al minimo le decisioni nella loro vita extralavorativa, indossando per esempio capi di abbigliamento sempre uguali, e non cambiando le abitudini alimentari o la foggia dei capelli, proprio per non consumare inutilmente la loro dose giornaliera di capacità decisionale.

Fino a quando le capacità decisionali sono intatte, la strada e l’opzione vengono scelte previa valutazione serena di ogni presupposto e di ogni variante, tenendo a mente tutti i dati necessari per orientarsi, e senza paura.

Una volta che la capacità decisionale non sia più integra, perché è stata consumata con le decisioni precedenti, la strada viene intrapresa in parte sempre crescente, mano a mano che tale capacità perde colpi, “alla cieca” o “col pilota automatico”, ossia mediante l’uso di automatismi, in genere costituiti dai precedenti giurisprudenziali copiati senza spirito critico, o dalla regola, inesistente nell’ordinamento formale che anzi prevede quella opposta, secondo cui nel dubbio è meglio mettere in carcere o condannare, per evitare guai e per evitare di sbagliare. Si tratta di una prassi che andrebbe, ovviamente, meglio esplorata.

Sta di fatto che vi sono studi pubblicati su riviste di settore prestigiose, e mai sconfessati, secondo cui più le decisioni vengono prese ad ora tarda, più esse sono orientate in senso negativo per l’istante o per l’indagato-imputato.

Mentre le decisioni assunte la mattina sono statisticamente più favorevoli.

Il che conferma come una volta intaccata l’integrità della capacità decisionale,  il magistrato tende a scegliere soluzioni standard, “copia-incolla”, e nel dubbio e nel semi-buio o nel buio a non riconoscere le ragioni del cittadino che chiede un certo provvedimento, o che si oppone a un certo altro.

Dunque, per concludere, si dovrebbero studiare i processi all’esito dei quali è stato accertato un precedente errore giudiziario, per verificare l’orario in cui i magistrati hanno firmato i vari atti. Come ormai può facilmente farsi quasi sempre, giacchè l’orario del deposito telematico da parte direttamente del giudice viene registrato dal programma software utilizzato nell’ufficio giudiziario.

Se, come spesso accade, si è trattato di decisioni assunte ad ora tarda, o addirittura di notte, e se peggio ancora assieme ad altri numerosi provvedimenti, potremmo individuare nella consumazione della facoltà decisionale (capacità di prendere delle decisioni), ossia nella “fatica decisionale” la causa o la concausa dell’errore giudiziario.

In questo senso si sono espressi diversi studi specialistici, tra cui Extraneous factors in judicial decisions | PNAS, e con una ricca produzione scientifica gli psicologi  Kathleen Vohs e Roy Baumeister.

La fatica decisionale si riferisce al deterioramento della qualità delle decisioni prese da un individuo dopo un lungo periodo di processo decisionale. Ogni giorno, il cervello prende in media 35.000 decisioni, e alcune persone arrivano perfino a 40.000. Questo numero impressionante ci fa capire quanto peso abbia la fatica decisionale nella nostra vita quotidiana.

La maggior parte delle decisioni riguarda questioni banali, come “Mi alzo ora o tra cinque minuti?” o “Che vestiti metto oggi?”.

Tuttavia, anche queste scelte apparentemente semplici possono accumulare fatica nel tempo.

La fatica decisionale riduce le nostre capacità e potenzialità, portando a una stanchezza che si accumula nel tempo. Quando siamo esausti a causa delle decisioni, commettiamo più errori, procrastiniamo e riduciamo la nostra efficacia nelle attività quotidiane (Decision Fatigue – The Decision Lab).

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