Simone Regazzoni: la filosofia, l’amore e la vita

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Regazzoni, studi in Filosofia presso Université Paris VIII Vincennes – Saint-Denis ed allievo di Jacques Derrida cui ha dedicato studi, ricerche e pubblicazioni, docente presso l’IRPA di Milano e Ancona già all’Università di Milano e Pavia, nell’ultimo testo pubblicato “Mia figlia, la filosofia” poi in “La palestra di Platone”, “Oceano. Filosofia del pianeta” e  in “Ti amo” dona al lettore un percorso a ritroso verso la riscoperta dell’intreccio di vita e filosofia ovvero delle radici dell’umano: non a caso il filosofo pratica l’Arte marziale “Hwa Rang Do” che è scoperta di filosofia, corpo e vita.

di Camilla G. Iannacci

 Indice dei Contenuti

“Mia Figlia, la Filosofia”

“La Palestra di Platone”

“Oceano. Filosofia del Pianeta” 

“Ti Amo” 

 SIMONE REGAZZONI: “MIA FIGLIA, LA FILOSOFIA”

Vico parla dell’umanità e del singolo come dei soggetti caratterizzati da tre fasi dello sviluppo: “prima sentono senza avvertire” poi sentono “con animo perturbato e commosso” infine pensano.
Un padre ha modo di vivere nell’esperienza della paternità l’età del senso, della fantasia, della poesia e del mito.
Il mondo dell’infanzia è molto popolato, è animato e il gioco, la fiaba, il racconto – che diventano retaggio per l’adulto e si manifestano nel pensiero, nell’arte, nella musica etc.- permettono al l’adulto un apertura, un affaccio in quello spazio-vita.
I giocattoli dai bambini vengono “decostruiti” ispezionati, si può dire, nell’essere aperti e scomposti per poi essere ricomposti ma con un ordine che ha le movenze peculiari dell’atto artistico: un atto che crea mondi in cui il reale viene trasfigurato e sfigurato ovvero assume aspetti celati al nostro primo sguardo.  Julia non gioca, come l’adulto è portato a credere, Julia inventa mondi nel suo continuo orientarsi nello spazio di vita costituito non solo dai genitori ma da oggetti che manipola per cercarne la natura e il senso e non l’utilizzo immediato.
Il gioco è nel contempo come il laboratorio dello scienziato in cui ogni oggetto o aspetto della natura viene interrogato ben prima dei famosi “perché” che risalgono all’uso della parola: la mente creatrice è in opera ben prima.
L’assenza della parola non ostacola l’interrogazione che avviene con lo sguardo, il pianto, le mani: col corpo che è il medium dell’esplorazione del sé, del mondo, della conoscenza.
L’essere genitore è rivivere l’esperienza della caverna platonica: non si intravede nella sua chiarezza quella piccola vita che nasce, cresce e che la si vive come parte di sé anzi propria e non sono sufficienti studi o consigli esperti per decrittare l’infanzia.
E’ una vita che s’impone e nel suo dispiegarsi recide una sorta di cordone ombelicale figurato e una simbiosi declinati al maschile,  non più solo precipui del materno, fino a quando ad un tratto in un gesto, in un silenzio, in una insofferenza il padre impara che la farfalla sta per spiccare il volo e si allontana anche se tornerà in modi e forme nuovi con cui familiarizzare ex novo.
L’età della fanciullezza declina ma informa l’adulto: le lacrime dei discepoli di Socrate, nel Fedone, hanno la loro scaturigine nel fanciullino che è in loro come è in noi e come Pascoli ci ricorda.

SIMONE REGAZZONI: “LA PALESTRA DI PLATONE”

Perché diciamo mi “leggi nel pensiero” o “ti capisco al volo”? Come intendiamo le intenzionalità altrui? Se ormai il contributo fondamentale dei neuroni specchio in questi processi è acquisito, resta un taciuto un espunto che va illuminato ancora.
Nel suo “La Palestra del Platone” Simone Regazzoni ci consegna uno sguardo altrettanto convincente dei neuroni specchio, una lettura che costituisce un punto di non ritorno non solo per la riflessione filosofica ma, e questo non è un “accidente”, per la nostra vita.
Il pensiero torna alle sue radici, occultate da Cartesio e per un lungo periodo fino alla cesura ed alla “svolta” operata da Nietzsche:  siamo ad una biforcazione della ricerca filosofica, un “salto catastrofico” alla Thom  sì, proprio la καταστροφή nella tragedia greca col significato di “girare giù, cambiamento, rovesciamento”.

La scoperta dei neuroni specchio da parte di Giacomo Rizzolatti dell’Università  di Parma ha allargato lo sguardo sulla neurobiologia e non solo: profondi sono stati i riflessi nel pensiero filosofico e nello spazio sociale dove si estrinsecano compassione, solidarietà, intersoggettività.

L’Empatia e la Filosofia

Nell’osservare le azioni altrui il sistema neurale di chi osserva va ad attivarsi nella stessa misura in cui si attiva allorquando è l’osservatore a compiere un’azione: l’empatia trova fondamento e spiegazione: capire l’altro, identificarsi nel dolore o nella gioia altrui, “leggere” e capire un gesto altrui è possibile grazie ai neuroni specchio: ci specchiamo negli altri come costoro in noi.
Ma, ancor prima, è il corpo che parla per noi e di noi: è  imperdonabile che il pensiero abbia occultato, espunto il linguaggio ed il pensiero insito nel/del corpo, sono gli occhi che vedono, capiscono, è il corpo che vede e pensa.

Corpo e Mente: la Nascita della Filosofia e la Palestra di Platone

Corpo e mente, scissi per lungo tempo in filosofia e nel pensiero religioso, trovano invece in Grecia uno spazio nobile nelle palestre: luoghi in cui s’intrecciano, coabitano idee ed esercizio fisico, senza soluzione di continuità come nella Palestra di Platone, appunto.

Il Nuovo Paradigma di Simone Regazzoni

Il cervello è pura plasticità e il corpo non ne è invidioso nei suoi movimenti di vita, nei suoi esercizi genera endorfine che fanno solo bene alla Filosofia che ora lo sa, non può più prescindere dallo studio di Regazzoni che si configura come nuovo paradigma: da ora in poi il filosofo non può solo parlare e scrivere di corpo e mente.
“Mi muovo, dunque penso” e “penso, dunque mi muovo” è l’unica via d’uscita di un pensiero filosofico fin qui confinato in biblioteche, convegni e of course in Accademia.
Tornare nell’Accademia di Platone e nella sua Palestra è l’invito che ci rivolge Simone, un filosofo, che pratica l’Arte marziale coreana Hwa Rang Do Filosofia e vita, la Filosofia è vita.

Sì, è il corpo: bellezza.

SIMONE REGAZZONI: “OCEANO. FILOSOFIA DEL PIANETA” 

E’ sufficiente un titolo, un indice di un testo: per osare pensare qualcosa su esso? Forse non è sufficiente, e questo sollecita ancora di più verso una sfida, ma necessario se il “ch’e’ ditta dentro” emerge prepotente.
Andiam allora “come una nave spinta dal vento” anche se è come buttarsi a mare senza saper nuotare: come chi scrive.

Odissea nello spazio

Il mito è pensato ed anche impensato in altri modi e soprattutto impensabile con il nostro sguardo “offuscato” dalle interpretazioni della storia.
Quando addirittura le interpretazioni sono assenti diventa arduo provare un discorso sul mare.
Sì, il punto è questo: il discorso, il logos che ci lega e condiziona cioè ci colloca nella condizione di non riuscire a dire.
Non il poeta però, non la narrativa però. La parola del canto ha detto.
L’Odissea non è forse anche un canto del mare e sul mare?
E Odisseo, cantato ancora una volta da Dante, non ha forse varcato le colonne d’Ercole?
Gli eroi vivono nel mare:
Ulisse costruisce una zattera per tornare ad Itaca rinunciando all’immortalità che Circe gli promette, il nòstos è determinate ma non tanto da non fargli varcare le colonne d’Ercole;
Achille, nell’Iliade, già in preda ad una furia dionisiaca, piange in riva al mare;
ed ecco Achab col “Moby Dick” di Melville e “Il vecchio e il mare” di Ernest Hemingway.
Ma il mare è anche Scilla e Cariddi come anche il regno delle Sirene e di Poseidone e di Teti (non è un caso che “deti” sta per mare nell’illirico).
Non possiamo pensare anzi “sentire” il mare come i Greci, il nostro non è il mare degli dei e del kósmos e del Cháos e del fato e dell’ananke.
Il pensiero allora prenda nota e varchi le colonne d’Ercole del suo logos.
Simone Regazzoni ha costruito la sua zattera e si è gettato in mare.

Sì, non esiste solo la gettatezza terrestre.
No, si può meglio dire: “Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé mar sì crudele; … seguitando il mio canto con quel suono”
Ai primordi, veniamo dal mare e dagli astri. Non è forse da lì che bisogna ripartire?
Nel senso di un nuovo inizio e nel senso proprio di ripartire con un nuovo dire.
Un capovolgimento di visione, una torsione come l’insorgere della prospettiva nell’arte e dall’arte al pensiero.
Nel nostro piccolo, annotiamo:
l’embrione di un mese è composto al 94% di acqua, il neonato è del 77%, il 60%-65% presenta l’adulto;
“si sono rotte le acque” si dice dell’inizio del parto;
“è consigliato bere molta acqua”
“siamo in una società liquida”.
Non è un caso che sulle isole Galapagos tra acqua e flora e fauna sia nata la Teoria dell’Evoluzione di Darwin.
E navighiamo, guarda  un po’,verso gli altri pianeti in cerca dell’acqua perché lì c’è la vita.
L’acqua: l’archè di tutte le cose.
Tutto congiura e si addensa sull’acqua, lì dove è ben visibile il πάντα ῥεῖ.
L’universo è conosciuto al 5% , il resto è materia oscura.
In comune il mare con l’universo ha l’inconoscibile, il non conosciuto ancora.
Si provi un’archeologia del mare, un andare a ritroso, ai primordi del logos: quando il logos non ancora parlava.
Si può, forse, parlare per frammenti, per suggestioni: non si sa nulla del libro di Regazzoni.
Come poco si sa dell’universo
Il mare vasto, in movimento, generatore di forme, simbolo dell’imprevedibilità, una “struttura” che è non struttura, non formalizzabile, una “forma” che recalcitra al calcolo e alla matematizzazione e che si rispecchia nell’universo e questo nel mare.
Ma diamo alla scienza ciò che è della scienza: il semplice “pane al pane, vino al vino”: il volo degli storni sono una struttura complessa, caotica con un ordine interno esplorato e codificato dal nobel Giorgio Parisi.
Un’analisi qualitativa più che quantitativa si addice all’elemento liquido.
Se la modellizzazione pare insufficiente, allora occorre un’arte dei modelli.
Il mare è fluttuazioni, increspature, biforcazioni, variazioni, pura dinamica, al di sotto della misura: è infinito, è elemento metamorfico per eccellenza: incontenibile.
Ancora la voce poetica: “tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.”

Il logos naufraga in pieno mare

Per «una necessità del pensiero», Heidegger rivolge lo sguardo a “La poesia di Hölderlin”: un modo “altro” di fare filosofia per poi affidarsi direttamente al verso in “Il pensiero poetante La produzione lirica heideggeriana 1910-1975”.
Sì, il logos occulta, la  poesia apre alla vastità ed il mare è vastità, apertità: il logos per parlare ha bisogno della voce del poeta.
Perché non basta il logos: l’uomo è anfibio dall’inizio e ora è anfibio nel suo condividere lo spazio di vita e degli affetti e culturali in una spazialità metamorfica: la rete che è uno spazio-tempo dove si naviga, per l’appunto, tra humanities, scienza e tecnologia: un intreccio inestricabile.

Una specie rara abita il mondo: questa umanità che condivide uno human-tech-space

Emerge Longino, Burke e Kant: il mare calmo e procelloso, rasserenante e sconvolgente, “bello quando è bello” e terribile quando è terribile, ignoto e profondo come l’inconscio.
Il mare è “bello e impossibile” per citare la Nannini perché la canzone ha cantato il mare e i suoi abitanti umani: “all’ombra dell’ultimo sole s’era assopito un pescatore” dice De Andrè o il Gino Paoli di “Sapore di sale”: non a caso due liguri.
Gli “Ossi di seppia” e ogni verso di Montale, guarda un po’: ligure, sono mare.
“Il Viandante sul mare di nebbia” di Caspar David Friedrich siamo noi: viandanti in terra e nella nebbia del Pensiero sul mare.
Il mare è contiguo all’abisso che ci abita, noi siamo il mare e ne abbiamo paura.
L’assenza del discorso “razionale” sul mare è qui.
Un nuovo “De rerum natura” un nuovo Lucrezio, se ci saranno, vedranno questa differente specie umana ma uguale a sé stessa: in cerca ancora di un senso e che sperimenta la scelta e lo scacco.
Pare sia questa la consegna di Simone Regazzoni e della sua “Filosofia del mare”.
A chi scrive così pare.

 Regazzoni: “Oceano. Filosofia del pianeta” 

Regazzoni: la filosofia, il mare, la χώρα e l’architetto sono alcune suggestioni sorte ieri sera nell’ascoltare la lectio del filosofo genovese che, nell’ambito del ciclo “la Filosofia del mare” a Palazzo Ducale di Genova, esplicitava le sue ricerche che presto vedranno la luce in un saggio per i tipi di Ponte alle Grazie col titolo “Oceano. Filosofia del pianeta” e  molte altre sollecitazioni ci sorprendevano.
In greco, paese, contrada, patria, regione, spazio, luogo, ed anche qualità, condizione, è indicato con un sostantivo femminile χώρα che è inserita nella polis a rimarcare il suo radicamento terrestre e di nutrice.
Sta anche per qualità e ci chiediamo intorno alla qualità di questa qualità da quando Platone ne ha parlato.
“Noi non siamo come le piante perché la nostra patria è il cielo” scrive Platone: si dà anche un’altra interpretazione, rispetto all’etimologia in senso stretto, esiste un tertium e per la precisione siamo al triton ghenos platonico.
Da allora noi, seduti sulle spalle dei giganti, ne siamo irretiti e ancora più da quando Derrida ne ha seguito le tracce, i segni e ci ha mandato una cartolina ancora da decifrare ed ad libitum.
Lo “spazio” dell’acqua, va da sé, è altro dalla nostra condizione attuale di terrestri.
La proprietà e la qualità dell’acqua quali sono?
Intanto è uno “spazio” mobile, dinamico per eccellenza.
Indeterminato, non interpretabile fino in fondo in una formalizzazione.
Non solo: il mare vive nell’informe epperò disegna figure, “strutture” ed una rimanda all’altra incessantemente.
Non a caso Regazzoni illustra l’opera di Turner.
Il primo impressionista in fondo: le sue sfumature, la luce, l’elemento acqueo, impalpabili ritornano e si esaltano in Monet.
Le acque si spezzano sulla spiaggia ogni volta in differenti figure sfuggenti eppure forme. E disegnano l’indefinito.
Si osa dire che l’acqua è come la chōra “appartiene ad un terzo genere: il triton ghenos. Non si può dire di essa che non è né questo né quello o che al tempo stesso questo e quello”
La chora platonica ricorre nell’ambito dell’architettura, le forme “pensano” all’interno di una matrix: mai termine platonico fu più vicino a noi

Che Derrida incroci Eisenman nell’ambito del progetto del “Parc de la Villette” (non importa che non si sia mai realizzato) non sembra essere un incontro fortuito, qui interessa notare il rapporto chora-figura-architettura che ricorre in continuazione.

Pare si possa dire che, in questo e non solo,  l’acqua sia una singolarità.
E richiede un pensare radicale, un cambio di visuale come quando, per la prima volta, gli astronauti hanno visto sorgere la terra blu davanti a loro che Regazzoni ricorda.
Un capovolgimento paradigmatico è la cifra di un pensiero impensato che chiede voce e rappresentazione.
Un fine setaccio di nuovi materiali, nuove parole e qualcuno che abbia il desiderio di arrischiarsi a camminare per nuovi sentieri come in un bosco inesplorato: su quel limite Regazzoni ha compiuto, da tempo, un largo tratto.

SIMONE REGAZZONI: “TI AMO” 

Roland Barthes enuclea 80 voci, appunto frammenti, in ordine alfabetico, che individuano delle figure quali “Angoscia”  “Abbraccio” “Gelosia”, “Assenza” e Simone Regazzoni in “Ti Amo” ne propone un nuovo paradigma.
Intorno a quale sia il tratto distintivo dell’esperienza d’amore, si può dire che non ci sia un aspetto unico infatti si va dall’esaltazione, all’euforia, alla gioia, alla disperazione, alla solitudine stessa.
Il discorso d’amore appartiene agli innamorati sia nella fase della nascita sia nella fine della storia ed il mondo può essere ed è ne estraneo. Anche da qui la necessità di un discorso sull’amore.
Roland Barthes, ne i “Frammenti di un discorso amoroso” e Simone Regazzoni in “Ti Amo” si confrontano sul tema di cosa sia l’amore Con quali parole si può raccontare l’amore?
Filosofia, poesia, arte, psicoanalisi, scienza ma anche romanzi, canzoni e film si sono misurati con questo tema.
I due autori non si limitano ad un excursus in questi campi, l’orizzonte di esplorazione è ben vasto tanto quanto la tematica lo impone.

Semiologia e Linguistica

Roland Barthes, non può non argomentare il suo discorso con gli utensili che gli sono propri: la semiologia e la linguistica.
Attraversa anche codici interpretativi che fanno di questo testo un saggio che non è un saggio, non è filosofia o almeno non solo: qui sono i vissuti degli innamorati che si fanno parola.
Il catalogo

Non è un manuale, un “how to do” ma un catalogo ragionato che parte dal Simposio di Platone,  e arriva a Proust, Nietzsche, Lacan, Dostoevskij, Rilke e Freud.
La guida del testo, come in Dante sono Virgilio e Beatrice, qui è il Werther di Goethe che è “l’arche-tipo dell’amore-passione“ .

La passione e il logos

La passione percorre anche un testo, a noi più recente, di Simone Regazzoni che in “Ti amo” non lascia dubbi sul contenuto e in modo apodittico, già col titolo, ci indica il discorso che esemplica l’amore e che racchiude il senso di esso.

La filosofia, il “logos” retrocede di fronte alla passione subita dall’io che – di fatto – non è più “io” in quanto la “passione si contrappone direttamente all’ azione, e indica, perciò, la condizione di passività del soggetto”

Alla ricerca dell’etimo: μαίνομαι

Il “discorso” sull’amore,  è possibile solo con un ritorno alle sue radici ovvero alla “mania” e al mito perché l’amore non è oggettivabile: il suo spazio-tempo è l’abisso, è come un buco nero che annichilisce ogni “logos”.
Di conseguenza, non è possibile interpretare l’amore col “logos”.
Il “ti amo” è intrecciato “alla follia”, come l’innamorato confessa: “ti amo e non posso non amarti che alla follia”. L’amore origina dal “μαίνομαι” che si traduce con «smaniare, essere pazzo».
Gli stati allucinatori, di spossessamento sono dell’innamorato, infatti si parla di “chimica” in un amore.

Autobiografia e Indicibilità

Se l’amore tenta di dire su di sé scopre i propri limiti: l’indecidibile. L’amore conosce solo la dis-misura, non la misura.
Allora soccorre il ricorso, inevitabile, all’autobiografia o alla poesia: singolarità che parlano alla singolarità propria dell’essere innamorati.

La griglia del frammento

La modalità del frammento cui ricorre Roland Barthes non è una semplice dichiarazione programmatica.
Allora, forse, si può dire che sia un tentativo di “oggettivazione” del sentimento d’amore?
Da una parte sì, dall’altra parte no.
Il frammento è l’unica griglia interpretativa di cui la cultura disponga, secondo Roland Barthes,  per un ragionamento sulle due “figure” del soggetto e dell’oggetto amoroso.

La coazione a ripetere: “schemi” e “figure”

E’ un racconto, il suo, a forma di twitt che consente di enucleare quelli che Barthes definisce “schemi”  ovvero la ricorrenza dei comportamenti presenti nell’esperienza d’amore e le “figure” come per esempio nell’ “Attesa” ove il soggetto confessa a sé stesso “io sono quello che aspetta. Sono innamo – rato? Sì, poiché sto aspettando”.

Il soggetto
Ma chi intesse il discorso su di sè e quindi una riflessione sull’amore? Roland Barthes, ne i “Frammenti di un discorso amoroso”, fa parlare il “soggetto amoroso”, l’innamorato: l’unico ad essere investito e condizionato dalla passione.

L’idealizzazione

L’ “oggetto amato” è pensato dall’innamorato che alterna stati di dipendenza a gioia, disperazione, esaltazione, esultanza e dolore.
L’altro è trasfigurato ed idealizzato da chi ama: l’altro è la realizzazione del suo mondo desiderante e lo confessa a sé stesso: “l’essere che io aspetto non è reale”.

La solitudine

Il soggetto innamorato, questo “io” è  un “io” in cui altri “io” s’identificano, e non potrebbe essere diversamente.
Eppure l’esperienza dell’innamorato è unica e solitaria, non riconducibile o assimilabile a nessun altro innamorato.
Un situazione esistenziale indicibile ed indecidibile.

Il Pensiero e l’indecidibilità del vissuto

Il Pensiero e l’indecidibilità del vissuto land Barthes ricorre, a piene mani, ai discorsi che la filosofia, la poesia, la psicoanalisi, il romanzo configurano sull’amore eppure l’esperienza d’amore non si può rinchiudere in questi confini.
L’amore vive nel vissuto di due “io” in conflitto con sè stesso e non si lascia irretire e costringere in un discorso.

La separatezza dal mondo

L’amore vive nella solitudine che abbraccia i due innamorati, li separa dagli altri e li distanzia dal mondo.
Il “logos” che governa il mondo non è compatibile col mondo del mito abitato dall’amore.

La fine di un rapporto

La fine è conosciuta solo dai due innamorati, il mondo lo ignora come ignorava la sua esistenza allo stato nascente.
“L’assenza” dal mondo degli innamorati non vuole dire che il discorso pubblico non ne sia investito: il “Simposio di Platone” l’Odi et amo”di Catullo, le pagine dei romanzi e dell’arte o anche dei film di serie B, sono lì a segnare il perenne parlare d’amore.

Se un discorso compiuto sull’amore non è possibile, e non lo è, pur sempre si è continuato e si continua a discorrerne.

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