Festival di Sanremo 2024: recensione della quarta serata

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Quarta serata del Festival vuol dire solo una cosa: finalmente le nostre orecchie sentono altro*. Quest’anno, poi – come ormai sembra esser diventato di tradizione – gli artisti in gara hanno scelto di portare sul palco dell’Ariston cover da cantare a squarciagola. Beh, tutti tranne lei, colei che meritava di vincere la serata a mani basse e lo dico così subito nelle prime battute. Sì perché Angelina Mango con “La Rondine”, canzone di suo padre, ci ha distrutti (in senso buono, sia ben inteso) e ci ha ricordato cosa deve fare la musica, ossia emozionare. Poi è chiaro, anche far ballare e sparare i bit a palla in macchina è dignitoso (quanto?), ma impossibile compararlo a quella forza evocativa e comunicativa di un messaggio, di un’esigenza, di un dolore o una gioia che solo la musica d’autore, quella di qualità, può dare.

*Sì lo so che, al di là delle scartabili, le sappiamo già a memoria e ci piacciono, però dopo tre interminabili sere e i social intasati, vanno aperte le finestre per far entrare un po’ d’ossigeno.

Oggi ho deciso che mi concentrerò sulla musica, anche perché vogliamo davvero commentare il siparietto da showgirl di Lorella Cuccarini che gridava da tutti i pori: “Tiè Rai, guarda che te sei persa in questi anni”?! Qualora la vostra risposta fosse comunque “sì”, allora ci sarebbe un’unica considerazione: brava, ottimi 5 min di gloria ma poi…desaparecida. E non è colpa sua ovviamente, è di Amadeus che ancora una volta non ha avuto l’intuizione giusta. Plauso, invece, meritatissimo alla parentesi di uno dei nostri orgogli italiani, Roberto Bolle, ambasciatore della danza nel mondo, che ha portato in scena fascino, leggiadria, perfezione e dedizione con una delle più celebri coreografie di repertorio classico. Un incanto per gli occhi e un balsamo per il cuore. Cosa centrava a Sanremo? La danza come la musica è arte, ragazzi, e guai a chi la chiama “sport”.

Se volessi soffermarmi sul dibattito acceso di queste ore per la vittoria della serata da parte di Geolier, sarei l’ennesima a scrivere di un problema che non riguarda la musica del partenopeo, bensì un accanimento territoriale. Dato in mano il voto al popolo, Napoli ha spalleggiato il proprio conterraneo con ogni mezzo possibile (per non essere più espliciti, vista la mancanza di prove oggettive). È corretto che abbia vinto? No. Si poteva evitare? No. Preferisco parlare della performance e, pur ritenendolo un artista ingamba che ha rilanciato più di tutti i suoi colleghi il rap napoletano in Italia, ha toppato nella scelta di portare sul palco Guè Pequeno e Luchè. Sarebbe bastata la cover di “Chiagne” con Gigi D’Alessio – omg, non ci credo che lo sto dicendo – con una versione moderna di “Mon amour” e forse (forse!!) avrebbero ottenuto un risultato migliore di quello presentato.

Perché no, signori, anche se avesse seguito questo mio suggerimento, altri artisti avrebbero meritato di rientrare nella cinquina od ottenere il suo posto in classifica. Penso allo stimolatore di coscienze Ghali insieme al pianista Ratchopper nel medley “”Baina – Cara Italia – L’italiano” che ci ha dato una bella lezione di inclusività; allo show da super bowl che ha regalato Annalisa con La Rappresentante di Lista e il coro Artemia nell’esecuzione di Sweet Dreams (are made of this) degli Eurythmics; oppure penso ai Santi Francesi in duetto con Skin e la loro intimissima e viscerale interpretazione di Hallelujah di Leonard Cohen, o ancora l’accoppiata direi sorprendente di Irama e Riccardo Cocciante che con “Quando finisce un amore” ci ha disintegrati in mille pezzi e ricomposti allo stesso tempo grazie al potere di quelle parole struggenti e piene d’amore. Loro sì che hanno dato un senso alla serata delle cover. Loro sì che hanno aggiunto dei ricordi indelebili alla storia del Festival. Come anche quel dolce dialogo tra nonno e nipote portato sul palco da Vecchioni e Alfa, che – anche se non mi ha entusiasmata poi così tanto – bisogna ammettere che ha lanciato un messaggio arrivato dritto e chiaro.

Non tutte le altre esibizioni erano presentabili, come spesso accade ormai, ma potrei citarne ancora qualcuna che sicuramente ha avuto una resa impattante rispetto a quella di Geolier (v. Mahmood che ci ha fatto vibrare con il grande successo di Lucio Dalla “Come è profondo il mare insieme ai Tenores di Bitti). Sappiamo, però, che tanto è solo il preludio di una finalissima che lo vedrà tra i protagonisti. Ormai gli scugnizzi sono stati slegati. E bisogna fare attenzione, ma io preferisco di gran lunga i brividi delle corde che tocca la Mango, ai brividi di paura.

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