“No ad un linguaggio di odio”: se il racconto della guerra in Medio Oriente può fare la differenza

Politica

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Da Cospe arriva un appello a tutti i cronisti impegnati nel racconto della guerra in medio Oriente a “usare un linguaggio corretto e a prestare l’attenzione dovuta a non alimentare l’odio, l’antisemitismo e l’islamofobia”

ROMA – “Nel racconto del conflitto in Medio Oriente i giornalisti hanno una responsabilità ancora maggiore, perché non devono alimentare in alcun modo discorsi di odio, antisemitismo o islamofobia”: così all’agenzia Dire Anna Meli, presidente di Cospe, organizzazione non governativa fiorentina per anni in prima fila con progetti di supporto sociale in Palestina, anche nella Striscia di Gaza con i colleghi di Educaid. L’appello è stato condiviso nei giorni scorsi con Carlo Bartoli, a capo dell’Ordine nazionale dei giornalisti.

In primo piano la necessità di “ricordare a tutte le giornaliste e a tutti i giornalisti italiani di verificare in modo attento le notizie, a usare un linguaggio corretto e a prestare l’attenzione dovuta a non alimentare l’odio, l’antisemitismo e l’islamofobia, anche nel nostro Paese”. Si tratta, spiega Meli, di “un richiamo alla responsabilità”. A renderlo indispensabile sarebbero i rischi di ulteriori ripercussioni sul dibattito pubblico e sul piano sociale della nuova fiammata del conflitto mediorientale, divampata il 7 ottobre con gli assalti di Hamas nel sud di Israele. Oltre 1.400 le vittime di quelle violenze e oltre 9mila le persone uccise nelle quattro settimane di bombardamenti di Tel Aviv nella Striscia di Gaza, tuttora in corso.

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