L’Iliade rivive nel cuore di Irene. «Amare è lasciare andare»

Arte, Cultura & Società

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Irene, com’ormai arcinoto, è stata adottata, è arrivata in Italia da un Paese dell’Est quando aveva tre anni. Lo dice apertamente a tutte le compagne e i compagni della prima liceo. Lo dice a tutti i suoi  prof, decisa, forse fin troppo; forse tutta quella decisione è uno scudo per difendersi da domande indiscrete. Irene ha fame di vita, in classe fa mille domande, interviene spessissimo, ha sempre la mano alzata. Irene ama la musica di ogni tipo: adora soffermarsi sui testi delle sue canzoni preferite, tradurli, sviscerarne il significato. L’Epica le piace molto: trova quegli eroi così lontani estremamente vicini; lo si legge nel suo sguardo sempre concentrato a ogni lezione, quando corruga la fronte sotto il caschetto di capelli corti. La sua famiglia è molto presente. Il papà si prenota per uno dei primi colloqui, racconta la storia della sua famiglia, dell’adozione di Irene, che è figlia unica. «Non ci ha mai dato problemi – dice –. È una sempre sul pezzo. Ci confrontiamo serenamente su tutto. Però… però adesso quella domanda le ronza dentro. La domanda sulle sue origini, sui suoi genitori biologici, che sono un mistero per tutti noi. Un mistero che rimarrà, ma che la tormenta, anche se non lo dice. Io però la conosco troppo bene.

Del resto, è mia figlia». È mia figlia. Lo dice con una certezza assoluta, che schiude un universo. Una certezza che mi fa venire la pelle d’oca.  Il papà di Irene mi saluta stringendomi la mano. «Quella domanda esploderà, vedrà. Magari in una delle sue ore, visto che a Irene l’epica piace così tanto». Le cose vanno proprio come il papà di Irene ha ipotizzato. La domanda esplode prepotente durante una lezione sull’Iliade. Stiamo leggendo un brano che precede lo scontro tra Ettore e Achille. Ecuba, madre del troiano Ettore, lo implora di non scendere in battaglia contro l’eroe acheo perché teme che resterà ucciso. Lo prega chiedendo di avere pietà di lei, che sarebbe distrutta dal dolore se il figlio morisse. Mostra a Ettore il seno con cui, quando l’eroe era bambino, lei lo ha allattato. Il seno, segno dell’unione indissolubile tra madre e figlio, segno della cura che sancisce un legame eterno. Di fronte a quell’immagine, Irene si incupisce all’improvviso.

Alza la mano: «E se uno non è stato allattato al seno? Il legame è meno forte?», chiede. Gli viene risposto ovviamente no, non è così. Lei non insiste, la butta sullo scherzo: «Se uno per esempio è stato allattato col biberon?». I compagni ridono, anche Irene sforza un sorriso. Ma l’espressione cupa le resta. Il pomeriggio Irene mi scrive una mail: «Scusi, prof, se ho banalizzato la scena della madre di Ettore. Mi ha molto commossa, mi creda». «Lo so – rispondo –. Se vuoi confrontarti su qualsiasi cosa, ci sono», aggiungo. Lei ringrazia con la consueta dolcezza.  La mattina dopo saluta tutti con uno sguardo di intesa, ma non parla più con nessuno dell’argomento. Che però le resta dentro: lo si vede dai suoi occhi, dalla sua agitazione crescente, dalla sempre più marcata insofferenza, che non può essere spiegata solo con il caldo più afoso e con la fine dell’anno che si avvicina. Il suo look cambia: da corti, i capelli diventano rasati quasi a zero, il trucco si appesantisce, l’abbigliamento vira verso il dark. Il rendimento scolastico cala, le domande in classe diminuiscono: Irene si chiude in se stessa, è spesso distratta, pensa, riflette, si chiude in se stessa. La speranza è che questa riflessione introspettica possa aiutarla a recuperare l’more per la vita, per gli altri.  A ritornare in mezzo a noi; di lei oggi non abbiam più notizie.

Marcario Giacomo

Editorialista de Il Corriere Nazionale

foto micsugliando.it

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