Decolonizzazione o neocolonizzazione?

Interviste & Opinioni

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Testo e foto di Alessandra Gentili

Prendo spunto, e do seguito,  all’articolo del nostro Direttore Antonio Peragine (https://www.corrierenazionale.net/2023/09/06/e-ora-di-dire-basta-alla-colonizzazione-francese-in-africa/), nel dire basta ai processi di  colonizzazione. Durante i mie studi ho avuto modo di conoscere i punti di vista di diversi Scienziati sociali che spesso mi hanno lasciata inizialmente senza parole. Tra questi sicuramente risalta il lavoro dell’Antropologa inglese Caroline Moser, della quale riporto una affermazione  che scuote non poco, e che recita cosi:  ‘poverty is seen not only as a problem of the poor but also as their responsibility’ (Moser, 2009 in Cullen et al. 2013). Cioè  “la povertà è vista non solo come un problema dei poveri ma anche come una loro responsabilità”. L’effetto potente di questa asserzione, va ricercata nella sua capacità di affrontare l’argomento, da una prospettiva  inusuale e scomoda. Come si può ben immaginare questa frase, isolata dal contesto, può essere soggetta a speculazioni di ogni tipo. Ma se approfondiamo il lavoro della Moser, ecco che si aprono scenari su cui vale la pena di soffermarsi.

Prima di entrare nel vivo delle considerazioni, è necessario introdurre la questione: comprendere il ruolo che il Nord del mondo, ha sul Sud del mondo, alla luce della cosiddetta decolonizzazione. Per farlo, prendiamo in esame i programmi umanitari sui mezzi di sussistenza. Affinché’ questi abbiano successo, è necessario inquadrare correttamente  cosa si intende per mezzi di sussistenza. Ma è fondamentale conoscere anche gli aspetti che stanno alla base del concetto stesso, cioè povertà, disuguaglianza e rapporti di potere. Chiariti questi aspetti, è necessario studiare in che relazione sono tra loro. Ma entriamo nel dettaglio: il concetto di povertà, ad esempio, e un concetto relativo, perché  dipende dai parametri scelti per la sua valutazione. Come riferito da Chang (2013) il livello di povertà in una tribù Maasai (Kenya) non può essere misurato con il parametro del reddito. In questa tribù, un pastore Maasai, nonostante abbia un reddito, è considerato povero se non possiede del bestiame.  Ed ancora il premio Nobel Amartya Sen,  nel suo lavoro “Poverty and Famines”(1981) ci offre una prospettiva interessante su come affrontare il concetto di povertà. Egli sostiene, ad esempio, che le carestie sono dovute al fallimento della domanda di cibo, o all’incapacità di acquistarlo, e non alla scarsità di cibo in sé. In questo modo Sen individua il fallimento della capacità di una persona di raggiungere i propri obiettivi, come causa principale. Questo significa affrontare il problema da una prospettiva profondamente diversa, e forse anche di difficile comprensione. Essa, tuttavia,  responsabilizza la struttura sociale, spingendola a trovare soluzioni che consentano alle persone di raggiungere i propri obiettivi.  “Chi possiede o ha accesso a cosa, chi fa cosa e chi ottiene cosa”,  sono queste le domande che gli scienziati sociali suggeriscono, al fine di capire le trame dei rapporti di potere esistenti. Cioè chi detiene il potere e le risorse, quale uso ne viene fatto, se le persone povere possono attuare il libero arbitrio (riunendosi in agenzie, partecipando alle decisioni) o se viene loro impedito di farlo. E’ chiaro che un sistema che prevede un accesso ineguale alle risorse, alimenta una realtà di divario sociale. Solo dopo aver chiarito questi aspetti, è possibile creare un programma di aiuti ad-hoc.

Quando la Moser afferma che la povertà è vista non solo come un problema dei poveri ma anche come una loro responsabilità, intende dire che queste popolazioni povere,  lasciate libere di trovare soluzioni, hanno le risorse necessarie per attuare strategie e uscire dalla crisi. I suoi studi sui mezzi di sussistenza, dimostrano che questi  cambiano nel tempo e, per aiutare veramente una comunità,  bisogna conoscerne la storia. Caroline Moser ha condotto uno studio, per un periodo di 30 anni, in un sobborgo della città di Guayaquil in Ecuador (Moser 2009), dimostrando che la comunità si è organizzata anche in situazioni molto critiche, istituendo un comitato per la gestione dei servizi e la costruzione dei mezzi di sussistenza, e successivamente puntando sull’istruzione, investendo nel miglioramento delle condizioni di vita. Un altro esempio lo troviamo nella storia di Shantilal, descritta nel lavoro di Anirudh Krishna “One Illness Away: Why People Become Poor and How They Escape Poverty” (2010). La famiglia di Shantilal era povera e viveva nel villaggio del Rajasthan, in India. Non possedeva terre e aveva una sola fonte di reddito. Prendeva in prestito il grano, pagando gli interessi. Un parente trovò  lavoro sia a Shantilal che a suo padre, in una fabbrica tessile a 250 km dal villaggio. Sebbene fosse un lavoro estenuante e mal pagato, il reddito consenti  l’educazione dei figli e l’acquisto di un gregge. Shantilal, dopo aver studiato, ottenne la posizione di manager, e finanziò gli studi ai fratelli minori. Pur non essendo ricchi, oggi vivono senza privarsi dei bisogni primari. In questo racconto è possibile rilevare come evolvono i mezzi di sussistenza, e quali ne sono le cause. È inoltre possibile vedere quali strategie le persone mettono in atto per uscire dalla propria situazione.

Oxfam ha portato avanti un progetto nel Vietnam centrale per un periodo di tre anni (Chaudry, 2010). Ha concesso una somma di denaro alle famiglie povere, da utilizzare senza condizioni. Il progetto mirava a comprendere che ruolo poteva svolgere il denaro, in qualità di  catalizzatore dei processi di cambiamento. Inoltre, lasciando le famiglie libere di decidere che uso farne, gettava le basi per una forma di aiuto che non fosse di tipo dominante. In effetti, un anno dopo la concessione, queste famiglie avevano investito un terzo della somma in attività generatrici di reddito (agricoltura e allevamento),  il 20% sulla casa (tetto e servizi igienici), il 20% per saldare debiti, il resto sull’istruzione. Questo progetto, così come concepito, causò una crisi di identità tra le élite del villaggio le quali, abituate a manipolare il sistema di distribuzione dei benefici, fecero molte pressioni sulle famiglie nel tentativo di intercettare il denaro. Fu evidente come le famiglie povere non riuscissero ad influenzare la politica locale, e come fossero mantenute in una condizione di povertà, con forme di stigmatizzazione (accusate di trarre profitto dal lavoro altrui). Ciò richiese tempo e impegno da parte di Oxfam, nel mantenere i contatti con le autorità a livello provinciale e nel spingerle a mantenere gli accordi iniziali di non intervento nel progetto. Nonostante i problemi, in alcuni villaggi le famiglie povere riuscirono a farsi sentire e iniziarono ad avere un’influenza nella comunità. L’assunto di partenza di questo progetto riprende il pensiero di Moser (capacità di responsabilità delle famiglie povere), e quello di Webster ed Engberg-Pedersen, (presenza di condizioni: in questo caso il denaro), e la difficoltà ad esercitare la propria influenza (questioni culturali). La scelta di come  investire il denaro, mise in luce le priorità e i valori culturali di quelle famiglie. Per gli anziani era importante acquistare una bara, per gli altri riparare il tetto per una migliore qualità di vita. I poveri cosi, acquisirono fiducia attraverso l’ente che li aveva finanziati. Questo progetto fornisce un esempio di come sia fondamentale comprendere il contesto in cui si va ad operare. Per scardinare le forme croniche che perpetuano la povertà, è necessario conoscere gli aspetti istituzionali. Le élite del villaggio in questione,  hanno avuto difficoltà a mantenere gli accordi presi, poiché hanno visto indebolito il loro potere. Ciò ha creato un dispendio di energie da parte dei promotori, impegnati per la buona riuscita del progetto. La conoscenza degli aspetti culturali, permette di capire come potenzialmente può essere utilizzato il denaro, mentre lo studio dei rapporti di potere, permette di individuare quali interessi possono essere scossi, e quali figure possano avere bisogno di un organismo che faccia da advocacy, per far acquisire loro capacita di agenzia.

Quanto sopra scritto, serve per comprendere quanto delicato e controverso sia questo argomento. Molti paesi sono stati decolonizzati sulla carta, ma le relazioni di potere esistenti ci dicono qualcosa di diverso. Se un paese che ha ufficialmente liberato la sua colonia, continua ad operare per mantenerla economicamente, o culturalmente dipendente, non ha cambiato poi molto. Si presenta solo sotto mentite spoglie.  Potrebbe essere importante capire che per poter dire basta alle forme di sfruttamento ai danni del Sud del mondo, il Nord dovrebbe cambiare il suo paradigma. Potrebbe essere importante capire che le scelte che facciamo e lo stile di vita che adottiamo come persone singole del Nord del mondo, influisce su ciò che il nostro stato andrà a programmare e viceversa. E che se intendiamo mantenere i privilegi che queste situazioni di dominanza ci concedono, non riusciremo a cambiare nulla.

References

Chang, D. et al,(2013) “Culture, livelihoods and making a living” in Papaioannou-Butcher International Development in a Changing World  Milton Keynes. The Open University

Chaudry, P. (2010) ‘Unconditional Cash Transfer for the Very Poorest in Central Viet-Nam’, What Works for the Poorest, Practical Action Publishing Limited. Extracts from pp. 170–1 and 174–6

Cullen, J. et al. (2013) “Interventions to promote livelihoods” in Papaioannou-Butcher. International Development in a Changing World Milton Keynes. The Open University p.265

Moser, C. (2009) “Ordinary Families, Extraordinary Lives: Assets and Poverty Reduction in Guayaquil, 1978-2004” Brookings Institution Press

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