L’identita’ dei popoli

Interviste & Opinioni

Di

Di recente abbiamo conosciuto Maria José Mendes Evora, autrice di “Trentotto anni di racconti” (Ed. Albatros), un libro che testimonia una immigrazione di successo, lontana temporalmente, ma proprio per questo interessante da capire e analizzare. Attraverso l’esperienza di Mendes Evora è possibile cogliere segnali di un contesto sociale, quello italiano, oggi profondamente cambiato e insieme, far luce sul luogo di provenienza di Maria José, il Continente africano, nella specificità le isole di Capo Verde, terra che quando l’autrice decide di lasciare per venire in Italia, nel 1979, probabilmente già rappresenta una sorta di specchio anticipato di ciò che da lì a qualche decennio sarebbe accaduto anche in Europa e soprattutto nel nostro Paese, attraverso le forsennate politiche economiche di austerità e conseguente debito. Il testo si presta ad analisi che offrono preziosi spunti in vari ambiti, quello autobiografico innanzitutto, ma in questa sede vorremmo porre attenzione all’aspetto storico, socioeconomico e antropologico-culturale dell’immigrazione.

La giovane Evora, nel ’79, appena ventenne arriva in Italia lasciando l’isola di Boa Vista, si trasferisce a Napoli e poi a Roma come collaboratrice domestica. Sono principalmente le associazioni cattoliche, a partire dalla Caritas, ad accogliere e aiutare una immigrazione quasi esclusivamente femminile, negli anni che precedono la promulgazione della Legge Martelli, del 1987. Conseguito il diploma, Maria José approfondisce ulteriormente gli studi e si iscrive alla Facoltà di Scienze Sociali presso la Pontificia Università Gregoriana. La laurea arriverà nel 1996 e con l’iscrizione alla Pontificia Università San Tommaso D’Aquino, l’Angelicum, alla Facoltà di Scienze Sociali, anche il Dottorato di ricerca su “La donna capoverdiana attraverso l’emigrazione e l’immigrazione in Italia”. Il 2 maggio del 2001 Mendes Evora inizia a collaborare con l’Agenzia Italia Lavoro e il 1° giugno del 2001 riceverà la nomina di Cavaliere al merito della Repubblica Italiana dal presidente Carlo Azeglio Ciampi. Quando il 25 marzo del 2013 all’Anagrafe di Roma le verrà riconosciuta la cittadinanza italiana scriverà. “Ora, dopo tutti questi anni, sento di poter dire che sono una cittadina del mondo, senza negare la mia profonda appartenenza alla mia terra natia”. Ma più è intenso è il suo impegno e i successi conseguiti, maggiore per Evora diventa la domanda: “Cosa fare per la ‘nostra’ gente? Che contributo è possibile dare all’Africa”? L’autrice infatti, è come se migliorando sé stessa nella sfera professionale avvertisse ancor più che gli immensi sforzi profusi qui in Italia, paiono inutili, impercettibili a colmare anche solo una sparuta parte dei bisogni di cui necessita la sua terra. Evora è fermamente convinta che migliorare sé stessi debba significare poter aiutare “anche” l’Africa e come per una felice osmosi vorrebbe che ciò arrivasse davvero al suo Paese; altrimenti, i tanti sforzi impiegati risulterebbero vani. Maria José ricorda infatti che “rispondere alle esigenze della propria nazione, ovunque un cittadino africano si trovi, significa rispondere all’Africa”; perché “ogni azione che si intraprende deve essere pensata come una missione a favore del nostro Continente”. Come? “impegnandosi”, è la risposta perentoria dell’autrice.

Alla conclusione del racconto degli anni trascorsi in Italia l’autrice ci lascia una testimonianza preziosa ammettendo che Il cammino segnato di successi e riconoscimenti è possibile grazie a un forte sentimento per tutto ciò che contribuisce a rendere consapevoli e determinati, ed esso proviene in grandissima parte dall’ancora rappresentata dall’identità. “Confesso che il legame forte con la mia terra è qualcosa di cui non posso fare a meno ed è per questo che continuerò ad impegnarmi sui temi che la riguardano, condividendo l’opinione di chi pensa che rimanere legato alla propria terra e alle proprie origini sia una delle cose più importanti per la vita di una persona. Almeno per me.”

Queste parole toccanti e coraggiose offrono lo spunto per considerare che proprio l’Antropologia Culturale ha posto le ragioni per le quali fa parte della “logica degli uomini” affermare che “il popolo è un io”; esattamente, perché ogni popolo ha una sua identità, come ci ricorda l’antropologa Ida Magli. Studiosa che nel suo variegato itinerario di studi rappresentato da una magistrale opera, ha sempre fatto notare il cruciale aspetto per cui il concetto di popolo è strettamente collegato a un determinato territorio, a una specifica lingua, alla struttura dello Stato e soprattutto alla religione che quel certo gruppo professa. Un “popolo è un io”, poiché alcune delle strutture indispensabili alla formazione della personalità di un individuo, sono le medesime che strutturano un popolo. La modalità di pensare e credere a determinate convinzioni rappresenta il prodotto di sentimenti profondi, sedimentati nel tempo, sostenuti e vissuti da un determinato gruppo in cui ogni individuo si riconosce e ne è a sua volta riconosciuto. Insomma, un “popolo è un io” perché possiede tratti che lo identificano come una “personalità” e gli permettono legami, intese e condivisioni con gli individui appartenenti a quella medesima comunità. La consapevolezza di sé, per ognuno, deriva pertanto dal “vedersi” rispetto alla concezione che quel determinato popolo ha elaborato ad esempio dell’idea della vita dopo la morte, quindi del tempo, dello spazio e ancora dell’atteggiamento mimico, del modo di parlare in fretta o meno, della maniera di gesticolare, di rispettare una specifica distanza tra persone, di parlare a voce bassa oppure elevata. L’insieme complesso di questi e altri tratti, che determinano il Modello Culturale, sono assunti da ognuno, pur senza volerlo e diventano simultaneamente elementi che andranno a definire sia il proprio aspetto biologico che culturale. Questo ci fa comprendere quanto sia difficile in fondo, “non equivocare” nei rapporti interculturali.

Queste analisi mettono in evidenza le problematiche che pone ad esempio l’immigrazione mussulmana all’interno delle società occidentali, nelle quali sono ormai consolidati i valori di una visione laica, prodotto di uno specifico itinerario culturale in cui ha trovato luogo l’emancipazione della donna e quella dei soggetti più deboli, principi che stridono profondamente con la maggior parte dei tratti della cultura islamica. Diversissima da quella cristiana perché “ferma” all’Antico Testamento, come quella ebraica, la quale però, almeno all’apparenza si è  modernizzata. Il Corano, come sappiamo è un Codice sia civile sia religioso, questo rende l’islamismo fortissimo e immodificabile e un testo considerato “Sacro”, non lo si può manipolare secondo i propri bisogni. Ciò significa che quanto noi abbiamo duramente conquistato nel corso della storia, soprattutto l’affermazione di un’etica scissa dal Sacro, si trovi ad essere incompatibile con la visione del mondo che proviene dal Libro dell’Islam. Il problema resta perciò immenso, perché non dobbiamo mai dimenticare che ogni cultura è un “tutto”, con una sua logica fortemente interrelata di significati, valori, prescrizioni e comportamenti che la sostanziano e purtroppo, non si può né esportare, né importare una parte di essa, senza tutto il resto.

A tal proposito è necessario essere consapevoli che abbattere le “differenze”, per evitare di incorrere nella “contraddizione”, sarebbe inutile e soprattutto gravissimo. Ecco allora che il luogo in cui è possibile riconoscersi con i propri simili come il “territorio”, il gruppo di appartenenza a una determinata comunità e cultura, diventa elemento di vissuto confortevole e potente perché “identifica”. D’altronde, come Maria José ci induce a riflettere, nella specie umana il territorio non è soltanto indispensabile alla sopravvivenza biologica, ma è un tratto “costitutivo” della identità di una persona, quindi di un intero popolo. Per questi e altri motivi pensiamo che l’Internazionalismo non sia possibile, si rivelerebbe “antivitale” per la specie stessa che ha bisogno delle “differenze”, sostiene l’antropologo francese Claude Levi-Strauss. E poiché la dimensione “naturale” di Homo Sapiens è la cultura, sono innanzitutto queste ultime a “non” doversi omogeneizzare, perché senza differenze la natura muore, come morirebbe ogni cultura. Per mantenersi, le differenze hanno bisogno di “stimoli”, fondamentali e vitali per l’umanità.

L’interscambio ad esempio nella storia dell’uomo ha sempre rappresentato un utilissimo stimolo, dato che ogni popolo, come ci ricorda Ida Magli, lo adopera in modo diverso e sempre nell’ambito della propria “direzione culturale”. Un gruppo infatti, qualunque esso sia, per essere creativo, vitale, produrre cultura e quindi sopravvivere, ha bisogno di distinguersi come gruppo. Perché questo accada, non può certo sentirsi gruppo, identificandosi con sette miliardi di individui come vorrebbe il Mondialismo, oppure con una comunità indistinta, formata da centinaia di milioni di persone, come quella stabilita dai “globocrati” di Bruxelles. L’appartenenza a una comunità non può essere dissolta da un Trattato, da ragioni esclusivamente politiche o meglio, economico-finanziarie. Poiché i valori della specie umana non sono legati alla sopravvivenza biologica, ma alla produzione del pensiero, delle arti, della filosofia, della scienza che si sviluppano in un determinato contesto, identificarsi e difendere il patrimonio creativo e culturale, per qualsiasi gruppo sarà possibile solo attraverso la consapevole volontà di sentirsi appartenente ad esso. Questo processo permette il concetto di identità, che contraddistingue un popolo da un altro, come ogni individuo, da quelli appartenenti ad altri gruppi.

Ma la nostra è un’epoca in cui i popoli, soprattutto quelli occidentali, vivono una fase di profonda crisi rispetto al riconoscimento di sé, dei propri valori, della propria storia  e civiltà. La maggior parte di essi sta subendo un esacerbato Potere da parte dei rispettivi governanti, a loro volta guidati da importanti Organismi Internazionali che eseguono la volontà di sparuti gruppi, molto potenti i quali detengono enormi risorse economiche e finanziarie. L’esplicito intento di questo Potere piramidale è la realizzazione del Mondialismo, che tende a livellare, azzerare ogni differenza, risultando perciò distruttivo per la sopravvivenza della specie stessa. Sul piano economico la sua forma più deleteria è rappresentata da un “imperialismo” il cui “sistema di sfruttamento si traduce non solo nella forma brutale di chi conquista il territorio con le armi, ma avviene quasi sempre in modi più sottili: un prestito, l’aiuto militare, il ricatto”, sosteneva già Thomas Sankara, Presidente del Burkina Faso dal 1983 all’87 e assassinato a soli trentasette anni, tre mesi dopo il suo memorabile discorso sulla menzogna del debito pubblico, pronunciato all’ONU. Egli aveva lucidamente colto che “le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune”. Queste attualissime parole hanno reso nel tempo esplicita la convinzione che trova sempre più spazio nei popoli occidentali: “L’Africa siamo noi”, come suggerisce l’economista Ilaria Bifarini, autrice di testi dalle penetranti analisi sul Continente africano (Ed. Amazo, “I coloni dell’austerity”, “Neoliberalismo e manipolazione di massa”). Perché attraverso l’imposizione di “condizionalità” legate ai prestiti concessi, si realizza una nuova forma di imperialismo globale, che si traduce poi in un vero e proprio colonialismo del “debito planetario”. Come possiamo notare, il meccanismo utilizzato dall’Unione Europea è il medesimo, soprattutto in Italia, di quello usato verso i Paesi economicamente più deboli: “La dipendenza dal debito, connotato dalle sigle più aberranti, accompagnata da una iperglobalizzazione indiscriminata, viene indicata come l’unica e salvifica strada percorribile. “Stabilizzare, privatizzare e liberalizzare è diventato il mantra di una generazione di tecnocrati che si è fatta le ossa nei Paesi in via di sviluppo e dei leader che ne seguono i consigli”, queste parole dell’economista turco Dani Rodrik definiscono bene la posizione speculare che ormai anche le società occidentali rappresentano rispetto a quelle africane. E se “l’imposizione di riforme macroeconomiche e commerciali sotto la supervisione del FMI e della Banca Mondiale hanno lo scopo di ri-colonizzare pacificamente i Paesi attraverso la deliberata manipolazione delle forze di mercato”, ricorda l’economista canadese Michel Chossudovky, come non accorgersi che gli stessi strumenti predatori sono utilizzati per “drenare” ricchezze anche alle popolazioni dei Paesi sviluppati? Queste ultime infatti, dalla tragica vicenda della Grecia continuano a subire destabilizzazioni politiche, crisi economiche e ovviamente, sotto l’implacabile scure della “ristrutturazione del debito”, visibili cedimenti anche sul piano della produttività culturale. Stiamo così assistendo a una sorta di “Terzomondializzazione” dell’Occidente che crea e alimenta divisioni tra classi e gruppi etnici dove i cittadini sono sempre più indifesi e schiacciati dallo Stato. In questo tipo di modello sociale, economico e politico è la logica stessa a dire che tutti gli aiuti dell’Occidente all’Africa, nelle forme più diverse, inclusi gli aiuti all’immigrazione, non sono altro che aiuti dei poveri, dei Paesi ricchi, ai ricchi dei Paesi poveri del Continente africano, insomma, una perfetta redistribuzione al contrario, secondo il modus operandi del Neoliberismo, nella tentacolare e spietata era della globalizzazione, ricorda Bifarini. Il nuovo “colonialismo” per imporre il proprio dominio ha smesso di far leva sul capitale e sul lavoro per usare lo strumento del “debito”, riducendo tutti i lavoratori, sia nei Paesi del Terzo mondo che in quelli avanzati, alla “internazionalizzazione” della povertà e della disoccupazione. Come ha notato lo scrittore e giornalista Adriano Scianca: “Gli europei si stanno auto-colonizzando, non ci sono truppe guidate da Conquistadores stranieri, ma truppe conquistatrici comandate da ufficiali indigeni”. “L’Europa tiranna” sta realizzando i propri obiettivi: la dissoluzione dei popoli e del loro modello culturale, dopo la frantumazione delle rispettive Nazioni, come ci ha recentemente ricordato la scrittrice e poetessa, Lidia Sella.

Rosaria Impenna

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Traduci
Facebook
Twitter
Instagram
YouTube