L’incubo del giudice Ernesto Anastasio

Attualità & Cronaca

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Il magistrato Anastasio è uno dei pochi che, non reggendo più di fronte alla valanga di incombenze che sovrasta ogni magistrato onesto, si è arreso e si è fermato: ma davvero non ci sono soluzioni rispetto al carico di lavoro eccessivo che incombe sui giudici e sui pubblichi ministeri?

Le cronache di questi giorni si stanno concentrando sul caso del magistrato professionale Ernesto Anastasio, che attualmente svolge funzioni presso il Tribunale di Sorveglianza di Perugia dopo il suo trasferimento dalle Sezioni civili del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

Anastasio viene presentato dai media, anche in conseguenza della perizia affidata dal C.S.M. (il Consiglio Superiore della Magistratura) – nell’ambito del procedimento disciplinare in corso per il ritardo nel deposito di circa 214 sentenze civili non depositate nei termini, 800 provvedimenti di sorveglianza non depositati e altri depositati in ritardo – all’esito della quale l’esperto in psicopatologia forense prof. Stefano Ferracuti dell’Università La Sapienza di Roma ha concluso sostenendo la sua attuale non idoneità a svolgere le funzioni di giudice, come una persona un po’ bizzarra che preferisce la poesia alla toga. Una semplificazione che non coglie la punta dell’iceberg di cui Anastasio, che proviene da una famiglia di giuristi e che verosimilmente è solo molto stanco e provato, rappresenta il segnale d’allarme.

I magistrati onesti, quelli scevri dalle scalate e dalle raccomandazioni che permettano loro di svolgere una vita più serena e anche a volte maggiormente remunerata, nei Ministeri, all’estero o con un incarico semidirettivo o direttivo, sono spesso persone che conducono un’esistenza di sacrifici ignoti ai più, giacchè dall’esterno si percepisce solo il loro potere di decidere sulle esistenze altrui con una firma, la toga che dona autorevolezza, gli agi assicurati da un buon trattamento economico.

Io ho continuato a svolgere il lavoro di magistrato dal 1999 sino all’agosto 2022, dopo le dimissioni rassegnate a maggio: il carico di incombenze sproporzionato, e la accertata impossibilità di una tutela sindacale – inesistente tuttora, giacchè giudici e pubblici ministeri sono oggi gli unici dipendenti cui non è riconosciuto il diritto di aderire ai sindacati dei lavoratori – contro le assegnazioni in numero eccessivo e i rischi di procedimenti disciplinari a carico di chi sia stato messo nelle condizioni di non poter riuscire a tenere sotto controllo i flussi continui di nuovi fascicoli da gestire, mi ha infine motivato a prendere una decisione maturata da tempo. Excappare, scappare, liberarsi fino a quando gli ultimi raggi di giovinezza e salute assistono, da una cappa opprimente, da un mondo che stritola i singoli caricando su di essi le residue finzioni di funzionalità della macchina-giustizia.

Perché, capite, se in un ufficio i magistrati in servizio sono dieci e i fascicoli da gestire, per dire, 10.000, è già pesante e ingiusto procedere per le assegnazioni a una mera divisione aritmetica: 1000 per ciascuno, perché una persona non può con serenità gestire 1000 fascicoli.

E ora vi spiego perché: i fascicoli non vanno solo studiati, occorre sentire persone, svolgere attività istruttoria, e poi, soprattutto, decidere: decidere se condannare o assolvere, se chiedere l’archiviazione o mandare a giudizio, se ha ragione tizio oppure Caio.

La decisione non è una attività meccanica, occorre non solo capire tutti gli elementi di conoscenza acquisiti, e metterli insieme, ma anche, alla fine, fare uno sforzo immane, centrifugarli nel cervello e prendere una decisione, e firmarla prendendosene tutta la responsabilità.

Se il lavoro è troppo, se si pretende che un magistrato prenda troppe decisioni al giorno, la macchina va in tilt, o rischia di andare in tilt. E che le decisioni giornaliere siano numerose, e ben oltre le possibilità umane, é un dato di fatto.

Ne ho conosciuti tanti, e tante, caduti vittima di svariate patologie a causa del carico eccessivo di lavoro, bastonati da avvilenti procedimenti disciplinari che li offendono per gli scontati ritardi cui va incontro chi accetta di essere oppresso da quantità di lavoro e di responsabilità eccessive, tutti i giorni, tutti i mesi, senza pietà.

Ho visto madri e padri di famiglia attaccati da mali fisici e psichici, ho visto eccellenti professionisti arrendersi alla sorte che li ha costretti a presentarsi come impenitenti ritardatari, annaspando tra i flutti dei rimproveri o delle facce storte di svariati capi, e senza riuscire a trovare sollievo in una autostima ormai definitivamente naufragata.

E attenzione, il dato empirico secondo cui però tanti magistrati vanno comunque avanti lo stesso non è di facile applicazione, va analizzato: perché i magistrati spesso percepiscono sé stessi non già come dei lavoratori dipendenti (e infatti è frequente che essi dimentichino i propri diritti, e addirittura si vergognino a farli valere) ma come dei padri o madri della patria, degli eroi che devono sacrificarsi per fare andare avanti la macchina della giustizia: dunque, e purtroppo se ne vantano pure, lavorano di notte, trascurano la famiglia, trascurano le cure necessarie alla propria persona.

Dopo tanti anni, ancora nessuno è riuscito a fare applicare a tutela dei magistrati ordinari i c.d. “carichi esigibili”, ossia la certificazione di un numero massimo di fascicoli gestibili da ciascuno nel rispetto dei diritti del lavoratore ad avere una vita personale, a curarsi, a coltivare le proprie passioni e i propri affetti. Eppure in tanti altri ordinamenti, fuori dall’Italia, vengono adottati sistemi di “pesatura” dei fascicoli per calibrare la quantità di lavoro sostenibile dal singolo magistrato: in particolare il c.d. metodo Delphi basato su diversi criteri di stima dei tempi di definizione dei procedimenti, e il c.d. time study che fonda la valutazione del peso dei procedimenti sulla osservazione empirica dei tempi medi effettivamente impiegati in passato dai giudici per definire controversie simili, rientranti nelle varie categorie.

Ma anzi, tornando alla squadretta ipotetica di 10 magistrati dell’ufficio, mi è capitato spesso di vedere che ogni qualvolta da 10 la squadra è passata a 9, a 8, a 7, a 6, e così via, il numero di fascicoli complessivi rimasto uguale, anzi addirittura aumentato, è stato comunque diviso per 9, per 8, per 7, per 6, senza alcun correttivo; e quando i dirigenti illuminati hanno tentato di proteggere i propri magistrati, “cristallizzando” i ruoli dei colleghi in malattia, in maternità, o trasferiti o andati in pensione, ossia evitando di riassegnare i suoi fascicoli e tenendoli fermi salve le urgenze, la stessa classe forense è spesso insorta contribuendo con esposti vari a peggiorare le condizioni lavorative già precarie.

L’unico metodo di stima del lavoro dei magistrati, che mai sia stato applicato in Italia, è stato ispirato a velleitari e terribili progetti di aumento della produttività dei magistrati fondati sulla mera previsione di progressiva amplificazione, anno per anno, della capacità dei singoli e degli uffici di definire numeri sempre maggiori di cause: un incubo pari a quello vissuto dal povero cavallo creato dalla penna di George Orwell, l’autore della “Fattoria degli animali”, animale indomito che si lasciava caricare di pesi sempre più gravi, visto che era riuscito in precedenza a portare quelli un pò più lievi, sino a quando non stramazzò a terra morto.

Quanti magistrati ho sentito dire in questi anni, mentre si accingevano ad andare al lavoro: “che angoscia”, “non ce la faccio più”, “vado a spalare m***a”, “sto prendendo le goccine per andare avanti”; e addirittura ho assistito a vicende surreali, in cui le sentenze sono state scritte da altri colleghi per aiutare quelli stressati o malati, e firmate da questi nell’indifferenza generale sulla profondità del problema.

Un sindacato, di fronte a una situazione del genere – che fra l’altro sarebbe ancora peggiore senza l’apporto lavorativo di migliaia di “magistrati onorari” che ancora oggi si dibattono tra scelte intricate e penalizzanti e invocano l’Europa a propria tutela, e di migliaia di altri precari inseriti nel c.d. “ufficio del processo” – insorgerebbe e si metterebbe sulle barricate: e forse proprio per questo motivo non esiste un sindacato dei magistrati.

E invece di affrontare il problema, si preferisce ancora una volta esporre e rendere pubblico il caso dell’ennesimo c.d. “giudice fannullone”, oggi il dott. Anastasio, domani chissà chi altro.

Forse, se i magistrati venissero assunti mediante un concorso per esami e titoli, dopo avere svolto per dieci anni almeno la libera professione forense, sarebbero meno deboli e tremebondi di fronte al loro datore, e riuscirebbero a sottrarsi al pudore della manifestazione e della lotta per i propri diritti, e alla fine per i diritti di ogni cittadino che cerca e ha bisogno di un giudice e di un pubblico ministero sereno, libero e forte innanzi tutto di fronte alla propria scala gerarchica.

3 Replies to “L’incubo del giudice Ernesto Anastasio”

  1. Cosimo Covito ha detto:

    Salvo alcuni casi, la disamina è del tutto appropriata. Impossibile continuare a far finta di niente. Al di là dei numeri di rg, si decide sulla vita delle persone.

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