Processo Palazzo di Londra, cosa c’è, cosa non c’è nella prima parte di requisitoria

Teocrazia e Cristianità oltre Tevere

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A metà della requisitoria del promotore di Giustizia, permangono le domande sul processo e sulla costruzione delle prove. Secondo Diddi “l’impianto accusatorio ha retto”. È davvero così?

Una udienza del processo sulla gestione dei fondi dei Musei Vaticani, nell’Aula Polifunzionale dei Musei Vaticani | Vatican Media / ACI Group

No, non è un processo contro la Segreteria di Stato. No, monsignor Alberto Perlasca non è un supertestimone. No, l’ufficio del Promotore di Giustizia non ragiona per teoremi, ma solo per prove. In tre giorni di requisitoria, a metà del guado che porterà poi alla richiesta delle condanne e traghetterà verso il lungo periodo dedicato a parti civili e arringhe difensive, il promotore di Giustizia vaticano Alessandro Diddi si è dedicato più a decostruire che a costruire. A smentire ogni singolo dubbio, velato o meno, che ci fosse stato sulla sua ricostruzione di ciò che è successo. A concedere su questioni minime, ma senza scontare nulla su quelli che pensa che siano stati i fatti. “L’impianto accusatorio – dice – ha retto”.

È una requisitoria aggressiva, che tiene conto delle testimonianze solo in pochi casi, ma che si sarebbe in realtà potuta tenere tale e quale tre anni fa, seguendo quanto scritto nel rinvio a giudizio.

Il processo

Il processo, come è noto, tratta tre filoni, tutti genericamente riconducibili alla “gestione di fondi” della Segreteria di Stato, e allo stesso tempo tutti diversi.

Primo filone, più importante: l’investimento della Segreteria di Stato su un palazzo di lusso a Londra per circa 200 milioni di euro, dato prima in gestione al broker Raffaele Mincione, poi al broker Gianluigi Torzi che aveva tenuto per sé le uniche mille quote dell’immobile con diritto di voto, e quindi era stato rilevato dalla Segreteria di Stato pagando a Torzi il valore delle quote, con una operazione che l’accusa qualifica come estorsione. La Santa Sede ha poi venduto il palazzo senza mettere in atto le operazioni di sviluppo previste, a un prezzo al di sotto del valore di mercato e con una perdita, secondo il promotore di Giustizia, che va dai 139 ai 189 milioni di euro.

Il secondo filone riguarda la destinazione di fondi della Segreteria di Stato per un valore di 125 mila euro alla Caritas di Ozieri in Sardegna, diocesi di origine del Cardinale Angelo Becciu. Il denaro è stato destinato dalla Caritas alla SPES, una cooperativa legata alla Caritas che fa opere sociali e che stava costruendo un panificio per creare lavoro. Il reato sarebbe quello di peculato, perché secondo l’accusa Becciu avrebbe utilizzato il denaro della Segreteria di Stato per fini personali e allo scopo di arricchire la sua famiglia.

Il terzo filone riguarda invece l’ingaggio, da parte della Segreteria di Stato, di Cecilia Marogna, sedicente esperta di intelligence che sosteneva di collaborare alla liberazione di alcuni ostaggi, tra cui quello di Suor Cecilia Narvaez, la suora colombiana che fu rapita in Mali nel 2017. La donna, secondo l’accusa, avrebbe speso per sé denaro da lei destinato dalla Segreteria di Stato per concludere le operazioni di liberazione.

Una premessa

Prima di addentrarsi in alcuni dei temi trattati nelle ultime tre udienze, senza entrare troppo nei dettagli, ma fornendo una spiegazione a grandi linee di quello che è stato detto, vale la pena chiarire quello su cui il promotore di Giustizia Diddi ha cambiato idea.

Prima di tutto, ed è la cosa più importante, la Santa Sede non utilizzava l’Obolo di San Pietro per effettuare gli investimenti.

Questo era stato chiarito durante gli interrogatori. La Santa Sede aveva un “Fono Obolo”, dove però non convergevano più le donazioni dell’Obolo di San Pietro, ed era piuttosto in cui convergeva il denaro di varie operazioni differenti. Per il Promotore di Giustizia, tuttavia, non è quello il punto. È piuttosto il fatto che l’Obolo non sarebbe bastato, e che anzi era lo IOR a contribuire notevolmente alle spese della Curia.

 Anche qui, andrebbero letti bene i bilanci. Lo IOR è arrivato a dare un massimo di 50 milioni di euro per la sede apostolica, tirandoli fuori dai suoi profitti, che erano arrivati nel 2012 ad essere di 86,6 milioni di euro. Poi, questi profitti sono scesi, e così anche il contributo della Curia. Nel 2016, quando c’è stato l’ultimo bilancio pubblico del governatorato, era evidente che le spese della Curia erano coperte in parte anche dagli utili del governatoratoche ha ingenti entrate grazie agli ingressi nei Musei vaticani.

Insomma, né il contributo dello IOR né il contributo dell’Obolo erano decisivi per tenere in piedi quello che è stato chiamato “bilancio di missione”. Anzi, i contributi dello IOR e dell’Obolo erano fortemente influenzati dai profitti nel primo caso e dalla raccolta nel secondo.

Il promotore di Giustizia, però, accetta in toto la narrativa della cosiddetta “banca vaticana”.  E non considera un secondo fatto: la Santa Sede ha sempre diversificato gli investimenti, la Segreteria di Stato ha attuato questa politica dagli anni Trenta, e solo il motu proprio recente di Papa Francesco Il Diritto Nativo  ha messo fine a questa politica di salvaguardia del patrimonio e di investimento.

Basta però vedere le varie storie della finanza vaticana redatte nel corso degli anni per rendersi conto che l’investimento di Londra era in linea con altri investimenti che erano in portafoglio della Segreteria di Stato. Il processo punta il dito contro l’investimento, considerato “speculativo”. Si tratta di comprendere cosa vada effettivamente definito speculazione.

La seconda cosa su cui Diddi ha cambiato idea è il presunto peculato che era stato attribuito a Tommaso Di Ruzza, direttore dell’Autorità di Informazione Finanziaria. Archiviato, perché le argomentazioni presentate anche in sede di interrogatorio sono state convincenti.

E la terza cosa su cui Diddi ha cambiato idea è il coinvolgimento di René Bruelhart, già presidente dell’Autoirtà di Informazione Finanziaria, nella stesura dei contratti che hanno portato alla liquidazione di Torzi. Quello, secondo Diddi, è tutta responsabilità di Tommaso Di Ruzza.

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