I numeri dell’assemblea del Pd dopo le primarie

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Elly Schlein 333 delegati, Stefano Bonaccini 267, Gianni Cuperlo 20. Non una maggioranza schiacciante per la nuova segretaria, che per la prima volta ha ribaltato il verdetto dei circoli. Un risultato che ha aperto nel partito una discussione sul meccanismo delle primarie

© Nicola Marfisi/ AGF – Elly Schlein e Stefano Bonaccini

AGI – Elly Schlein 333 delegati, Stefano Bonaccini 267, Gianni Cuperlo 20. Sono i numeri della prossima assemblea del Partito Democratico, così come risultano a fonti della Commissione Congresso. Un ribaltamento rispetto al risultato dei congressi dei circoli che avevano visto uscire vincitore Stefano Bonaccini con 79.787 voti, pari al 52,87%, mentre Schlein aveva fatto registrare 52.637 voti, pari al 34,88%.

È la prima volta nella storia del Pd che il vincitore nei circoli non viene eletto segretario. Un ribaltamento che mette in discussione la ‘cifra’ stessa del Partito Democratico, quelle primarie aperte a cui partecipano iscritti e non. Certo, è vero che chi paga i due euro per votare alle primarie finisce nell’albo dell’elettore dem e deve firmare la carta dei valori, ma ben altra cosa è partecipare alla vita del partito 365 giorni l’anno, è il ragionamento di chi chiede di rivedere in profondità il sistema delle primarie.

Chi difende le primarie ma, allo stesso tempo, chiede di riflettere su quanto avvenuto è il senatore Enrico Borghi, che al congresso ha sostenuto Stefano Bonaccini: “Queste primarie pongono un tema inedito: il ribaltamento delle scelte tra gli iscritti e gli elettori del Pd”, osserva Borghi interpellato dall’AGI: “Il che – al netto del fatto che si è verificata un’eterogenesi dei fini, perché i fautori delle primarie aperte hanno vinto tra gli iscritti e viceversa – pone un tema di modello di partito che dobbiamo scogliere, dentro il dibattito della forma-partito nella modernità”.

“E cioè se siamo partito che si propone un progetto organico di guida di una società, complessa e liquida come la nostra, o se puntiamo ad una logica ‘movimentista’ che immagina di cavalcare le campagne di opinione e i temi del momento. Da questo discende anche il ruolo fondamentale della ‘costituency’ – prosegue – L’errore che non dobbiamo compiere è quello di contrapporre gli iscritti agli elettori, attribuendo ai primi o ai secondi una valenza negativa o positiva a seconda delle letture”, avverte il senatore dem.

“La vicenda delle primarie pone l’indubbia esigenza di una riflessione di questo tipo, ora finalmente scevra da strumentalità, per costruire un partito che sappia declinare la rappresentanza politica nella modernità e contribuire con ciò al rafforzamento di una Democrazia rappresentativa oggi malata nel nostro Paese, come attesa la disaffezione elettorale in varie circostanze”, conclude.

I numeri usciti dalle primarie saranno ‘certificati’ da qui a dieci giorni quando, domenica 12 marzo, l’assemblea si insedierà per votare l’ufficio di presidenza e il tesoriere. Un passaggio tutt’altro che trascurabile perché, statuto alla mano, l’assemblea è l’unico organo in grado di sfiduciare il segretario, con voto a maggioranza assoluta.

La maggioranza ottenuta ai gazebo dovrebbe, in ogni caso, consentire alla segretari eletta una navigazione tranquilla, sebbene i numeri a suo favore siano un po’ piu’ risicati di quelli dei leader che l’hanno preceduta. Nicola Zingaretti, eletto segretario nel marzo 2019, poteva contare su 653 delegati dei mille di cui era composta allora l’assemblea (prima della riforma dello statuto del 19 novembre 2022), contro i 228 di Maurizio Martina e i 119 di Roberto Giachetti.

Ancora meglio andò a Matteo Renzi nel 2017 quando si assicurò una maggioranza schiacciante di 700 delegati, contro i 212 di Andrea Orlando e gli 88 di Michele Emiliano.

Ma non ci sono solo i delegati eletti attraverso quelle che i dem chiamano “convenzioni”, ossia il collegamento delle liste territoriali alle singole mozioni (una sola lista per ogni mozione).

A essi si aggiungono altri componenti dell’assise: i segretari fondatori del Pd (Letta, è uno di questi), gli ex segretari nazionali del Pd iscritti (ancora Letta e Zingaretti, mentre Renzi non è più iscritto), gli ex Presidenti del Consiglio iscritti (Paolo Gentiloni e, ancora una volta, Enrico Letta), i segretari regionali, i segretari provinciali, i segretari delle federazioni all’estero, delle città metropolitane e regionali, la Portavoce della Conferenza nazionale delle donne, i coordinatori Pd delle ripartizioni estero, il segretario dei Giovani Democratici; cento tra deputati, senatori ed europarlamentari aderenti al partito indicati dai rispettivi Gruppi, i sindaci delle città metropolitane, dei comuni capoluoghi di provincia e di regione e i presidenti di regione iscritti ed in attualita’ di mandato.

A conti fatti, non una maggioranza schiacciante per Schlein. Il Pd, tuttavia, ha mostrato negli anni una certa tendenza allo spostamento progressivo dei dirigenti di minoranza verso il segretario eletto. Una tendenza inversamente proporzionale a quella che vede, poi, la minoranza bersagliare il quartier generale per logorare la leadership. Tendenza di cui è tornato recentemente a parlare l’ex segretario Nicola Zingaretti per il quale il peggior difetto del Pd è “la presenza di un nucleo moderato, conservatore che in maniera un po’ oligarchica, dopo una scelta democratica del segretario, se non gli va bene lo logora”.

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