Ancora sulla parita’ tra accusa e difesa e sul giusto processo

Fisco, Giustizia & Previdenza

Di

Le recenti vicende giudiziarie di vario segno e colore dalla condanna  in Cassazione dello Psichiatra Giuseppe Dore  https://www.lanuovasardegna.it/regione/2023/01/26/news/caso-alzheimer-condanna-definitiva-per-dore-il-neurologo-andra-in-carcere-1.100229885 , processo che dovrebbe essere  sottoposto a revisione per possibili violazioni dei diritti della difesa e per declassamento dell’Incidente Probatorio da prova regina a non si sa che (incidente …perche’ c’è stato un incidente ? https://www.facebook.com/groups/CorrierePL/permalink/5857315054385582/ ),
alle note assoluzioni in appello e in  Cessazione per Cavilli vari benché i corpi di reato fossero alla luce del sole, di fatto in flagranza di reato, ci riportano alla necessità di lavorare di piu in direzione del Giusto Processo che garantisca Legge e Giustizia ai Cittadini e  in particolare la Dignità dello Stato, persa la quale si va verso il precipizio del discredito e della perdita irreparabile del prestigio dello Stato e delle Sue Istituzioni nell’equivoco persistente tra le tre COSTITUZIONI FORMALE. MATERIALE ED EMERGENZIALE  in cui viviamo .
Su questi temi ci siamo intrattenuti di recente anche in una lettera aperta al dr Nicola Gratteri pubblicata sulle pagine FB di REPORT   e ripresa dal CORRIERE NAZIONALE  giusto ieri   https://www.facebook.com/groups/CorrierePL/permalink/5902465726537181/ .
Un contributo di un certo spessore tecnico e umanistico ci viene dall’intervento del dottor  Marcello Vitale (Presidente Aggiunto Onorario della Corte di Cassazione alla INAUGURAZIONE DELL’ ANNO ACCADEMICO DELLA UNIVERSITA’ POPOLARE FEDERICIANA  tenutosi nella Sala Aldo Moro della Camera dei Deputati il 14 Febbraio sul tema
“Etica ed Umanizzazione: Il Punto di svolta per garantire il futuro dei diritti dell’Uomo”
Il tema trattato dal  dott. Marcello Vitale, che riportiamo integralmente  è stato : “
Funzione retributiva della pena e principio di Umanizzazione della stessa”.
Nella storia della civiltà giuridica occidentale, quindi anche quella italiana, ci si è in diritto penale a lungo ispirati, ne cives ad arma ruant, alla teoria meramente retributiva della funzione della pena (implicante il concetto di personalità, di determinatezza, di proporzionalità e di inderogabilità): la sanzione irrogata dall’autorità giudiziaria nel processo deve servire a punire il colpevole per il male provocato dalla sua azione illecita. Tale visione della giustizia, applicativa in qualche misura dell’antica legge del “taglione” e improntata alla produzione di deterrenza, certamente finisce in concreto per limitare fortemente i diritti fondamentali dell’essere umano, tra i quali, innanzi tutto, il diritto alla vita e alla integrità fisica, quello della salute, il diritto a un giusto processo, eccetera.
Pian piano però è iniziato un nuovo percorso nei paesi di stampo occidentale, quello dell’umanizzazione del diritto penale con conseguente abbandono della antiquata concezione della funzione meramente retributiva della pena ritenuta eccessivamente afflittiva dei fondamentali diritti umani; iter evolutivo culminato in Italia con l’introduzione dell’art. 27 della Costituzione secondo il quale le pene devono tendere al recupero sociale del condannato, finalizzato al reinserimento nella società del colpevole: le stesse, così recita il III comma, non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Precetto a cui si è peraltro allineata la riforma dell’ordinamento penitenziale che all’art. 1 della legge 354 del 1975 afferma che “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve attuare il rispetto della dignità della persona”.
Principio di umanizzazione, applicativo di un sistema detentivo più improntato a una concezione etica della giustizia, ripreso anche dall’art.4 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e, successivamente, dalla Raccomandazione, adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa: nell’esecuzione della pena vanno tutelati in ogni caso i diritti inviolabili: divieto di profili afflittivi particolarmente intensi o degradanti. Tralasciando per esigenza di brevità di occuparci dell’ultima fase (in senso temporale) dell’evoluzione della giustizia penale verso risposte sempre meno afflittive dei diritti del soggetto detenuto e più efficaci nel controllo del crimine, basata sulla teoria di un modello di “giustizia riparativa” coinvolgente più che l’autore del reato la vittima cui va risarcito il danno, tentiamo qui succintamente di contemperare in qualche misura le due “visioni” oggi a livello dell’esecuzione della pena conviventi in Italia: quella ispirata dalla teoria meramente retributiva della pena e l’altra basata sui principi fissati dall’art. 27 della Costituzione italiana secondo i quali la stessa deve essere finalizzata alla rieducazione del soggetto e al suo reinserimento sociale.
Al riguardo, seppure per incidens, giova soffermarsi sull’attualissima tematica dell’esecuzione della pena dell’ergastolo ostativo, particolare tipo di regime previsto dall’art. 41 bis Ord. Penit., stabilente il c.d. carcere duro che esclude dall’applicabilità dei benefici premiali (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà, sconto anticipato della sanzione) gli autori di reati particolarmente riprovevoli quali i delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione, individuati al comma 1 di tale norma. Esclusione che si verifica qualora il soggetto condannato non collabori con la giustizia ovvero tale collaborazione sia impossibile o irrilevante. Questo sistema si fonda su una presunzione assoluta di pericolosità sociale del detenuto in conseguenza della tipologia e gravità del reato commesso e della personalità del soggetto.
A mio avviso, ai fini della salvaguardia della sopravvivenza stessa dello Stato, la categoria di soggetti sottoposti al carcere duro, quindi non quelli sottoposti ad ergastolo “comune”, vanno esclusi (così dandosi pienamente applicazione al principio della inderogabilità della pena irrogata) da ogni trattamento premiale che consenta loro, dopo un periodo di reclusione più o meno lungo, di uscire dalle patrie galere raggiungendo lo stato di libertà. E’ dato oramai assodato che tali soggetti, una volta fuori, spesso ritornino a delinquere, rientrando oltre tutto nel seno delle Organizzazioni Criminali in cui militavano prima di essere arrestati. In generale succede che circa i due terzi dei detenuti, scontata la pena e ritornati in libertà, ricomincino a delinquere. Questo emerge dai dati statistici ormai consolidati. Ciò non vuol dire che il sottoposto, per superiori e necessarie esigenze cautelative di giustizia, a siffatto regime detentivo particolarmente afflittivo epperò salvaguardante lo Stato, non debba essere umanamente (ed eticamente) tutelato, compatibilmente con le esigenze stesse statutarie, nei suoi diritti fondamentali, primo tra tutti il diritto alla salute. Il problema si risolverebbe ponendo mano a una edilizia carceraria al riguardo più attrezzata, efficiente e in linea coi tempi (l’Italia in questo è tra i fanalini di coda in Europa).
Per gli altri detenuti per reati di rilevante gravità, occorre preliminarmente prendere atto della situazione fatiscente e sovraffollata sotto il profilo logistico in cui versa la stragrande maggioranza delle carceri italiane, prive degli spazi indispensabili per alloggiare in maniera dignitosa i detenuti; il che finisce per comprimere in maniera inaccettabile i diritti fondamentali dell’uomo. Si pensi ai numerosi suicidi per impiccagione con le corde ricavate dalle strisce di lenzuola ed altresì alle vessazioni, maltrattamenti ed altre sevizie dei detenuti stessi ad opera delle guardie carcerarie: cfr. al riguardo le relative inchieste giudiziarie in tempi recenti. Proporrei, in relazione a tale tipologia, che, dopo un congruo periodo di sottoposizione al regime penitenziario, il soggetto detenuto (che abbia scontato una pena pari alla metà più un giorno di quella inflitta con condanna definitiva), previo parere favorevole espresso dal magistrato di sorveglianza, sconti la restante sanzione, al fine del suo proficuo reinserimento nella società, in luoghi esterni al carcere prestando lavoro di utilità sociale congruamente retribuito dallo Stato.
Così dandosi sostanza ed effettiva attuazione al principio fissato dall’art. 27 della Costituzione finalizzato al reinserimento nella società del colpevole di un reato ancorché di elevato spessore criminale. Propugnerei inoltre, come punto di svolta risolutivo, per la restante miriade dei reati meno gravi, la riforma del sistema sanzionatorio mercè l’introduzione su larga scala, tout court, della pena del “lavoro di utilità sociale” alternativa al carcere. Ciò a parte, nel contempo, il necessario ricorso massivo non solo all’istituto della depenalizzazione dei tantissimi reati cosiddetti bagatellari (comportante quindi un folto disboscamento delle variegate minutaglie che oltre che il cittadino affliggono il giudice impedendogli di dedicarsi maggiormente alla definizione dei casi gravi) ma anche al potenziamento della riforma Cartabia per quanto concerne l’arcipelago di reati procedibili a querela di parte; riforma peraltro meritevole di giusti ritocchi come quelli concernenti le ipotesi in cui sussiste l’aggravante mafiosa. All’inizio del mio dire ho indicato, tra i diritti fondamentali e irrinunciabili, quello del diritto del cittadino a un giusto processo che, per essere tale, deve essere definito in tempi rapidi o, almeno, ragionevolmente brevi.
Le eccessive lungaggini di una causa finiscono per costituire di per sé una sorta di pena aggiuntiva implicante spesso la devastazione psicologica del soggetto, a prescindere di come, con assoluzione o condanna, la vicenda giudiziaria si concluda. Che fare dunque? La strada percorribile per risolvere il problema è quella indicata dal citato articolo 111 della Costituzione italiana che sancisce il principio appunto della “ragionevole durata del processo” la quale, secondo come divisato dalla Corte di Cassazione, è considerata quella che rispetta il termine di tre anni per il giudizio di primo grado e di due quello di secondo (legge Pinto). Ma è una semplice chimera? No se si ha il coraggio di affrontare con decisione la questione centrale. La chiave per la soluzione la offre ancora il citato art.111 della Costituzione laddove senza mezzi termini introduce, tra l’altro, il principio di parità tra accusa e difesa: il processo penale perde praticamente la sua vecchia natura inquisitoria e sono nettamente separate la fase delle indagini e quella del dibattimento, solo nel corso della quale si forma in contraddittorio tra le parti la prova (tranne i casi d’incidente probatorio).
Come dire che il vero processo penale inizia davanti al giudice del dibattimento e il resto, quello emergente nella fase dell’indagini, se non confermato dinanzi a questo, conta poco o nulla. Occorre quindi sempre meglio fissare i paletti legislativi e limitare al massimo, onde evitare la prescrizione dei reati sempre in agguato dietro l’angolo, il tempo a disposizione del P.M. per le indagini, pena la nullità degli atti dallo stesso compiuti oltre la scadenza fissata dal legislatore. Ciò tanto più alla stregua della considerazione che nella successiva fase del giudizio il giudice del dibattimento, sganciato da avvilenti limiti temporali, potrà sempre sopperire, tramite l’istruzione dibattimentale celebrata in democratico contraddittorio tra le parti, alle carenze eventualmente verificatesi nel precedente stadio delle indagini. No quindi ai giganteschi ed “esemplari” maxiprocessi, mediaticamente pompati, nelle aule bunker con centinaia di cittadini sottoposti a misura cautelare detentiva, col risultato, comprovato dalla statistica, che, alla fine dei tre gradi di giustizia saranno condannati in via definitiva soltanto pochi soggetti. Situazione tanto più commendevole allorché si rammenti che l’art.358 c.p.p. prevede che il P.M. compia ogni attività necessaria e svolga ogni attività di accertamento su fatti e circostanze a favore delle persone sottoposte alle indagini; quindi debba acquisire anche le prove favorevoli all’imputato. E che dire poi su quanto detta l’art. 408 c.p.p. che stabilisce che il Pubblico Ministero può presentare al giudice una richiesta di archiviazione se ritiene che la notizia di reato sia infondata, in quanto gli elementi che ha acquisito durante le indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio? (prognosi questa da effettuare, con doveroso scrupolo sorretto da c.d. “cultura della giurisdizione”, prima di richiedere al g.i.p il rinvio a giudizio dell’indagato).
In conclusione: se le norme su citate fossero state rigorosamente applicate da parte degli inquirenti, verosimilmente si sarebbe evitata gran parte degli errori giudiziari (messa in luce successivamente dalle sentenze assolutorie) perpetrata impunemente ai danni di tanti cittadini innocenti. Roma 14 febbraio 2023
Marcello Vitale (Presidente Aggiunto Onorario della Corte di Cassazione
C’è di che riflettere in un programma condiviso di potenziamento della Giustizia  e dello Stato a cui si auspica diano un contributo tutte le forze che mirano al rilancio della GRANDEZZA DELL’ITALIA  A TUTTI I LIVELLI .
Dal Central Park di Prato  19 febbraio 2023 Vincenzo Valenzi
link dei video amatoriali all’Inaugurazione dell’Anno Accademico Federiciano degli  interventi di

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