La guerra dei chip tra Cina e Stati Uniti

Economia & Finanza

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I semiconduttori sono il principale terreno dello scontro tra le due superpotenze per la supremazia tecnologica. Il reclamo di Pechino alla World Trade Organization ha aperto un nuovo capitolo di una complessa partita che sta coinvolgendo anche altri Paesi, dal Giappone a Taiwan

Chip

 

AGI – Cina e Stati Uniti si sfidano sull’hi-tech, in un duello che si preannuncia come il più acceso, e ampio, per la supremazia tecnologica tra le due grandi potenze. L’ultimo capitolo della disputa lo ha scritto Pechino, sporgendo reclamo al Wto (l’Organizzazione Mondiale del Commercio) per le restrizioni alle esportazioni di chip da parte degli Stati Uniti, che il 7 ottobre scorso avevano annunciato una delle manovre più vaste per limitare l’export verso la Cina di semiconduttori ed equipaggiamenti per la produzione di chip, vitali per la produzione di smartphone, ma anche per lo sviluppo di sistemi d’arma avanzati.

In base alle nuove regole di Washington, i produttori di queste componenti avranno bisogno di una licenza speciale per potere esportare in Cina, perché gli Stati Uniti intendono fare qualsiasi cosa per evitare che “tecnologie sensibili con applicazione militari” finiscano nelle mani di Pechino, ha detto il sottosegretario al Dipartimento del Commercio Usa, Alan Estevez, commentando la decisione di Washington. E tra le misure prese c’è anche quella che vieta a cittadini statunitensi, o ai detentori di green card, di lavorare per aziende cinesi del settore, una mossa che punta a chiudere i rubinetti delle risorse statunitensi per le imprese cinesi, in nome della tutela della sicurezza nazionale.

Tra commercio e sicurezza nazionale

Nel reclamo alla Wto, la Cina ha definito la pratica di Washington “tipica del protezionismo commerciale”. Gli Stati Uniti, è l’accusa di Pechino, hanno “generalizzato il concetto di sicurezza nazionale, abusando delle misure di controllo delle esportazioni, ostacolando il normale commercio internazionale di chip e altri prodotti, minacciando la stabilità della catena industriale globale e della catena di approvvigionamento, interrompendo l’economia e l’ordine del commercio internazionale” e violando regole economiche e commerciali.

Con il reclamo del 15 dicembre scorso viene formalmente aperta la disputa presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio tra Cina e Stati Uniti, che avranno sessanta giorni di tempo per risolverla, trascorsi i quali il Paese ricorrente, ovvero la Cina, avrà diritto a chiedere un’istruttoria da parte di un comitato di esperti.

Washington ha risposto al reclamo di Pechino presso il Wto – il primo dall’inizio dell’amministrazione targata Joe Biden – affermando che l’ente che gestisce le regole del commercio internazionale “non è la sede appropriata” per questioni che riguardano la sicurezza nazionale, e dichiarando di non avere alcuna intenzione di rimuovere le misure intraprese. Al contrario, l’Ufficio per l’Industria e la Sicurezza del Dipartimento del Commercio di Washington ha inserito 36 aziende – tra cui il più grande produttore cinese di tecnologia per la memoria informatica, Ymtc – nella sua Entity List, che impone l’ottenimento di una licenza governativa per l’esportazione di specifici prodotti.

I moniti a Olanda e Giappone

Dei 36 gruppi segnalati, tutti sono basati in Cina, tranne uno, collocato in Giappone, controllato da un gruppo cinese. La disputa non riguarda solo Cina e Stati Uniti, ma ha dimensioni molto più ampie. Sia il Giappone che i Paesi Bassi stanno valutando controlli alle esportazioni verso la Cina su pressioni di Washington, destando irritazione a Pechino.

In questa chiave va letto il sottile monito del presidente cinese, Xi Jinping, al primo ministro olandese, Mark Rutte, a margine dello scorso vertice del G20 di Bali. “Il mondo è uno”, ha detto Xi, ed è “necessario contrastare la politicizzazione delle questioni economiche e commerciali e mantenere la stabilità delle catene industriali e di approvvigionamento globali”. Nel mirino c’è il produttore di attrezzature per i chip Asml, che ha recentemente mostrato una certa riluttanza a tagliare i legami commerciali con la Cina sotto la pressione degli Usa.

Di tono simile anche il richiamo alla stabilità delle catene industriali rivolto da Xi al primo ministro giapponese, Fumio Kishida, incontrato pochi giorni dopo a Bangkok, a margine del vertice Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation).

La questione si aggiunge alle già profonde diatribe in corso tra Pechino e Tokyo (Taiwan e rivendicazioni territoriali nel Mare Cinese Orientale) alimentando un clima di diffidenza che i due Paesi cercheranno di gestire con l’arrivo a Pechino, previsto per fine mese, del ministro degli Esteri giapponese, Yoshimasa Haysashi. Nella competizione con gli Usa sui chip, la Cina punta sull’autosufficienza, ma allo stesso tempo intende “espandere attivamente l’importazione di tecnologia avanzata e attrezzature importanti”, come si sottolinea in un passaggio della Conferenza Centrale del Lavoro Economico che si e’ tenuta nei giorni scorsi a Pechino per stendere le linee da seguire in economia nel 2023.

Il nodo di Taiwan

Per la Cina, gli Stati Uniti devono “smettere di abusare del concetto di sicurezza nazionale e prendere di mira specifiche aziende cinesi con misure discriminatorie e ingiuste”, ha dichiarato questa settimana il portavoce del ministero degli Esteri, Wang Wenbin, che non si è rallegrato all’anticipazione della notizia, confermata ieri, dell’eliminazione di 25 aziende cinesi dalla Unverified List di Washington. La disputa non poteva escludere Taiwan, uno dei maggiori produttori di semiconduttori al mondo con il gigante Tsmc.

I rapporti tra Washington e Taipei sono ai livelli più alti da decenni, e irritano profondamente Pechino che esercita pressioni economiche, diplomatiche e militari sull’isola. Ad agosto scorso, poche settimane dopo la visita della speaker della Camera dei Rappresentanti Usa, Nancy Pelosi, a cui Pechino ha reagito con sette giorni di imponenti esercitazioni militari nello Stretto, la presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen ha aperto in maniera chiara alla cooperazione con gli Usa.

“Sono felice di vedere aziende di Taiwan che vogliono investire nell’industria dei semiconduttori statunitense. Siamo impazienti di rafforzare la cooperazione con gli Stati Uniti nel campo dei semiconduttori e in altri settori dell’alta tecnologia e di rispondere insieme alle sfide economiche dell’era post-pandemica”, ha detto Tsai durante l’incontro a Taipei con la senatrice repubblicana Marsha Blackburn, in una delle sue dichiarazioni più nette sul tema della cooperazione tecnologica con gli Stati Uniti.

La Cina rimane un cliente troppo grande per essere sostituito in tempi brevi, ma alle parole di Tsai sono seguiti i primi fatti: il fondatore di Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) Morris Chang ha annunciato il 6 dicembre scorso, insieme allo stesso presidente Usa, Joe Biden, l’apertura di un secondo impianto produttivo in Arizona, che porterà gli investimenti della multinazionale taiwanese nello stato americano da 12 a 40 miliardi di dollari.

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