La parità di fatto

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La giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Che cosa significa la parità dichiarata nella Costituzione. Come curare un virus di cui la società nel suo complesso non riesce a cogliere l’enormità

di Rita Lofano

©  Afp –  Violenza sulle donne

AGI – Un anno fa, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, mi chiesi che cosa sarebbe rimasto di questo giorno, se la marea montante dei femminicidi non avrebbe finito con il produrre assuefazione e perché con tanta insistenza mi si domandava se preferivo essere chiamata vice direttrice o vice direttore.

E’ passato un anno, in Europa è scoppiata una guerra e per la prima volta nella storia d’Italia a Palazzo Chigi c’è una donna, caparbia e intelligente (anche gli avversari politici lo riconoscono), giovane, bionda e mamma di una bimba di 6 anni (tanto per citare alcuni stereotipi e pregiudizi).

La decisione di Giorgia Meloni di firmare gli atti ufficiali come “il presidente del Consiglio” ha sollevato un putiferio, scontri tra destra e sinistra. E’ intervenuta pure l’Accademia della Crusca, precisando che “non c’è nulla di strano” e invitando “ad abituarsi a non avere paura di queste oscillazioni linguistiche”. E invece tutto oggi assume una valenza ideologica, anche le scelte grammaticali. Come se fosse l’uso del femminile (o meno) negli incarichi a garantire parità sostanziale.

La Costituzione della Repubblica Italiana sancisce uguaglianza tra donne e uomini ma questo, come con lungimiranza sottolineò la più giovane madre costituente, Teresa Mattei (partigiana, torturata e violentata dai nazifascisti), è solo un punto di partenza e non di arrivo.“Perciò noi affermiamo oggi (era il18 marzo del 1947 e Mattei aveva solo 26 anni) che, pur riconoscendo come grande conquista la dichiarazione costituzionale, questa non ci basta. Le donne italiane desiderano qualche cosa di più, qualche cosa di più esplicito e concreto che le aiuti a muovere i primi passi verso la parità di fatto, in ogni sfera, economica, politica e sociale, della vita nazionale”. E quel “di fatto” Mattei lo fece inserire anche nell’articolo  3 della nostra Carta.

Settantacinque anni dopo, l’ultimo dossier del Viminale ci restituisce un quadro impietoso: tra il primo agosto 2021 e il 31 luglio 2022, sono state uccise 125 donne, in aumento rispetto alle 108 dei 12 mesi precedenti, in media più di una ogni 3 giorni. Di questi, 108 omicidi sono stati compiuti in ambito familiare o affettivo, 68 da un partner o ex.  Un macabro bollettino che ormai non fa più notizia come i morti nella guerra in Ucraina.

Il valore della donna sembra determinato solo da quello che può offrire alla famiglia, dunque alla società. Il valore di una bambina in molte culture è praticamente pari a zero, in alcuni casi è addirittura negativo, un fardello da sistemare magari con un buon matrimonio (un tempo c’era pure il convento). Un’adolescente è un malditesta, una single che lavora è una donna incompleta, se ha figli e lavora è come minimo una cattiva madre. Questa rappresentazione subalterna della donna si riflette direttamente su come vengono giudicate le vittime di violenza, anche nella rappresentazione sulla stampa, nei tribunali, tra le forze dell’ordine. Se il caso non viene ignorato e diventa sensazionale sui social o sui giornali, scatta il ‘character assassination’, che non viene risparmiato neppure alle morte. La violenza sulle donne è un virus, una malattia che può essere curata solo se la società nel suo complesso riesce a cogliere l’enormità della sua portata. Una nazione non può svilupparsi se metà della sua popolazione viene forzatamente paralizzata. Il 25 novembre non basta. Serve un cambiamento di cultura, servono grandi donne. E grandi uomini.

 

 

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