Il saggio che racconta gli effetti della pandemia sui bambini

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Nell’”Anno rubato” di Anya Kamenetz le domande di partenza sono diverse ma la più forte è una sola: perché gli Stati Uniti sono stati così unici e spettacolari nel deludere i loro figli?

di Alberto Ferrigolo

AGI – La “scuola di Zoom”. Ovvero, nessun cambiamento sociale ha avuto un impatto così profondo sulla mia vita adulta quanto la prolungata chiusura delle scuole durante la pandemia, è l’assunto di Anya Kamenetz in “L’anno rubato”, saggio che si occupa di come il Covid ha cambiato la vita dei bambini e dove stiamo andando ora, e “resoconto implacabile delle rotture nella vita di tanti americani, dalle crisi di salute mentale alla fame, ai fallimenti accademici e agli incidenti (in uno degli aneddoti più sorprendenti, un bambino di 7 anni viene colpito mentre irrompe in un edificio quando avrebbe dovuto essere a scuola)”, scrive il New York Times.

Nel suo lavoro Kamenetz viaggia da San Francisco all’Oklahoma, da St. Louis a Washington, intervistando un gruppo di genitori diversificato dal punto di vista razziale e socioeconomico, nonché dozzine di esperti, professionisti e attivisti. E il risultato è un excursus, “una breve panoramica dell’incapacità delle femministe della seconda ondata di dare la priorità all’assistenza all’infanzia a prezzi accessibili, seguita da una ancora più breve sulle femministe nere che volevano il diritto di stare a casa, quindi da un’altra su come il lavoro di cura non può essere monetizzato”.

E poi c’è un capitolo su come i fornitori di salute mentale “sono stati sopraffatti durante la pandemia”, che ne precede un altro in cui si  sottolinea come “alcune persone hanno effettivamente avuto maggiore accesso all’assistenza sanitaria mentale”.

Nell’”Anno rubato” le domande sono diverse: perché gli Stati Uniti sono stati così unici e spettacolari nel deludere i loro figli? Perché il più grande e robusto pezzo di infrastruttura pubblica della nazione – la scuola pubblica – è crollato, e perché non c’è stato più indignazione e attivismo quando è successo? Ma le domande rimangono per lo più senza risposta perché, come risponde la stessa autrice, “la mia intenzione qui non è quella di ritrattare questo pasticcio o di puntare il dito”, scrive Kamenetz. “voglio invece ricostruire l’impatto sui bambini“.

Scrive che nel marzo 2020 “noi sapevamo qualcosa su come mitigare i rischi di tenere aperte le scuole… avevamo anche alcune idee su come mantenere sia i bambini che gli adulti più al sicuro quando si radunano al chiuso”.

“Eppure le nostre scuole”, continua, “non sono state in grado di aprire così rapidamente come hanno chiuso“. “Questa costruzione è uno dei numerosi tentativi di ginnastica per evitare potenziali conflitti. Le scuole sono edifici. Non si aprono né si chiudono da soli”, annota però il New Yorker, tant’è che “la colpa che Kamenetz attribuisce riguarda principalmente l’ex presidente Donald Trump” per cui “c’era una forte correlazione tra il numero di elettori Trump in un distretto e la riapertura delle scuole”.

Storie, individui, famiglie, gruppi nel saggio di Anya Kamenetz

Insomma, “L’anno rubato” finisce per offrire “tutti i personaggi conosciuti che interpretano tutte le stesse parti: Trump è orribile e incompetente, le mamme del calcio (cioè le donne bianche) sono privilegiate e complici, i repubblicani sono autorizzati e maliziosi, i papà cisgender sono all’oscuro e oppressivi, i neri e le persone brune sono oppresse, insegnanti e sindacati sono buoni con intenzioni nobili”. Come in una commedia.

Ma l’aspetto più interessante del lavoro di Kamenetz, spiega il New Yorker, “sono stati i frammenti che hanno suggerito narrazioni più provocatorie e non raccontate: le famiglie di colore che hanno deciso di frequentare la scuola a casa o di creare le proprie scuole; il gruppo della comunità di Oakland, in California, che ha costruito centri di apprendimento di successo e formato le madri a fare sensibilizzazione; la madre single che ha abbandonato completamente la scuola e ha attraversato il paese con il figlio autistico e il loro gatto”.

Alla fine, Kamenetz sembra chiede una “crescita post-traumatica”, ma per crescere – osserva il New Yorker – “però, dobbiamo andare oltre le stesse vecchie storie, rischiare domande più difficili e immaginare nuove relazioni, se vogliamo rivendicare l’umanità e il futuro dei nostri figli”. Resta però inevasa la risposta ad una domanda di fondo: perché è stato tutto così difficile? La risposta conclude il settimanale, “che richiede un impegno stimolante e controverso, è lasciata al lettore da guardare tra i tanti frammenti” del libro.

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