Consulta: no al carcere obbligatorio per la diffamazione a mezzo stampa

Attualità & Cronaca

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di Claudio Gentile

La legge sulla stampa del 1948 è incostituzionale nella parte in cui obbliga il giudice a punire con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato.

A stabilirlo una recente sentenza della Corte Costituzionale depositata il 12 luglio scorso.

Se è vero che il diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti “costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla dignità della persona”. Pertanto, “aggressioni illegittime a tale diritto”, compiute attraverso la stampa, la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e i siti internet in generale e i social media, “possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime”.

Per i giudici della Consulta però l’art. 13 della Legge n. 47 del 1948 contrasta con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere – spiega la sentenza – può produrre infatti l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri.

Tuttavia, non è di per sé incompatibile con la Costituzione che il giudice applichi la pena del carcere a chi, ad esempio, si sia reso responsabile di “campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi”. “Chi ponga in essere simili condotte – eserciti o meno la professione giornalistica – certo non svolge la funzione di ‘cane da guardia’ della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità ‘scomode’; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia”, anche per i possibili effetti distorsivi di tali condotte sulle libere competizioni elettorali.

La Corte ha invece escluso il contrasto con la Costituzione dell’articolo 595, terzo comma, del Codice penale, che prevede, in alternativa fra loro, la pena della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa in caso di condanna per diffamazione commessa a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità, purché sia interpretato nel senso che la reclusione può essere applicata dal giudice soltanto in casi estremi. In tutti gli altri casi, resterà invece applicabile soltanto la pena della multa, opportunamente graduata secondo la concreta gravità del fatto, oltre che i rimedi e le sanzioni civili e disciplinari.

Il giudice delle leggi si è pronunciato su due questioni sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari, che erano già state trattate nel giugno dello scorso anno. In quell’occasione, i giudici della Consulta avevano deciso di rinviare di un anno la discussione delle due cause al fine di permettere al legislatore di approvare una nuova disciplina della materia in grado di bilanciare meglio il diritto alla libertà di cronaca con la tutela della reputazione individuale.

Considerato che però ciò non è avvenuto la Consulta ha deliberato l’incostituzionalità della norma contestata. La sentenza ha dichiarato illegittimo anche l’articolo 30, comma 4, della legge n. 223 del 1990 sul sistema radiotelevisivo pubblico e privato, che estendeva le sanzioni previste dall’articolo 13 della legge sulla stampa alla diffamazione commessa per mezzo della radio o della televisione.

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