La vita dentro

Arte, Cultura & Società

Di

di Claudio Grisancich

Scrive Carl G. Jung:

La tua visione diventa chiara solo quando guardi dentro il tuo cuore. Chi guarda fuori, sogna. Chi guarda dentro, si sveglia”.

È una visione che valorizza l’anima come fonte originaria di esperienza, conoscenza, verità attingibile. Infatti cosa sappiamo del mondo se non ciò che viene percepito e compreso dalla coscienza? Bisogna poi vedere quanto la coscienza si possa allargare,  cosa sia disposta ad esprimere con modelli archetipici suoi, provenienti dall’inconscio. Sappiamo che quella dell’artista sa essere molto vasta.

Sono premesse necessarie per entrare  nello spirito del libro in prosa poetica di Claudio Grisancich, “La vita dentro” (Ibiskos Editrice Risolo, pp. 63, 2015), con introduzione di  Marina Silvestri, postfazione di Walter Chiereghin e illustrazioni di Francesca Zucca (tecnica mista su carta). 

Si tratta di 30 quadri, schegge della vita del poeta, alcune brevissime, come il verso di una canzone che inizia e termina uno dei racconti: “Lili Marlene, la canzone“; oppure istantanee colte in un lampo, sempre esaustive della trama: “Il basilico, la gru, i passeri“,  che nel prosieguo della  lettura scopriamo essere tutto il mondo alla finestra del padre anziano quasi cieco. Un universo che il figlio coglie, divenuto altamente significante,  “povertà  di spirito”  beata e totalizzante, sintetica. Si può vivere di queste visioni contate, esserne appagati, sentire che il tutto è contenuto nella parte,  è “dentro”, appunto. 

È libro di memorie, biografia lontanissima da un diario. Vi aleggia lo spirito universale,  diventa particolare e unico nelle vicende, nell’infanzia vissuta in soffitta da cui sognare il resto attraverso un abbaino, bambino sorretto dalle braccia della mamma. Infanzia di guerra con il padre soldato che non torna, che ne sarà di lui, l’attesa dura anni. 

E poi abbiamo flash continui, il cinema, l’adolescenza appassionata, una fisarmonica, i canti delle donne che volano da una finestra all’altra, crescere nell’operosità e nell’amore,  e tutto il resto. Il tempo che scorre come acqua. E poi? Poi in modo circolare tornare bambino, nel sogno finale del sottomarino in cui restare in un per sempre salvifico e in cui la nostalgia del “pre” si fa bruciante. Un “pre”, per intenderci, di sapore leopardiano, da “Sabato del villaggio“, prima che la vita cominci, quando veniva immaginata scrutando da un abbaino. 

E non è forse per tutti così? I grandi temi legati al sentimento, qui delicatissimo, espresso con pudore e prosa limpida, immaginifica, sono sempre gli stessi, perché  lo stesso è l’anelito dell’uomo: conoscere, andare, voler ritornare, rimembrare e rendere eterno il vissuto.  

Grisancich invita a una conversione, a cambiare verso,  a saper guardare dentro dove nulla si perde. L’universalità del processo è resa fin dall’inizio, nel primo quadro ed “incipit” del libro, con “l’uomo che ascolta i sospiri“, una figura angelica direi, simile al “daimon” socratico; con una differenza: la Presenza in Socrate parla e suggerisce, l’uomo del poeta tace, sorride come un Buddha, compatisce:

L’uomo che ascoltai sospiri lo incontri (se hai la ventura di incapparci) che percorre le stropicciate passatoie dei condomini; è silenzioso, discreto; passa piano; sorride tristemente qualsiasi voce o rumore senta provenire dalle porte cui passa accanto; non stupisce di nulla; sente e passa oltre.”

Il libro ha un sottotitolo curioso: “ovvero elogio del punto e virgola“. Per dire l’eleganza delle pause, oggi  disattesa nelle prose spesso sciatte. Ma non solo, il punto e virgola  parla di un discorso che varia ma non si chiude.  Proprio come i 30 quadri, tutti diversi ma legati fra loro da un filo, simili a un abito di pregio confezionato senza cuciture da un virtuoso dell’esistenza che freme e lascia in noi la voglia di ripercorrere, riassaporare le pagine con un sospiro, una lacrima.  

Magia del tempo perduto (Proust), felicità intramontabili, come dopo aver visto Gino Cervi e Fernandel al “Cine Italia” con i genitori, “era l’inverno del ’52

Là era stato veramente felice; seduto tra suo padre e sua madre, vedersi frammezzo a loro; felice al colmo di una felicità quasi insopportabile, da dolergli piacevolmente in petto. Sentì di voler piangere, singhiozzare forte ma aveva vergogna anche se nessuno poteva sentirlo;”

Già. Tre numero perfetto, il pleroma, la pienezza. Quella che non tornerà, se non nella memoria. Questa è infinita. Lo comprende appieno Marina Silvestri che in prefazione scrive con maestria:

“La scrittura libera le parole, il ghiaccio dentro. La memoria si scioglie. Nell’elemento liquido il dolore si placa. Si stempera nel mare infinito delle esistenze. L’abisso, la sostanza elementare dove la vita e la morte si rimescolano.”

Graziella Atzori

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