Le stagioni della “Waste Land” di Eliot

Arte, Cultura & Società

Di

di Stefania Romito

L’Aprile, secondo Eliot, è il più crudele dei mesi.  Questa “crudeltà” di Aprile deve essere riferita al fatto che genera lillà dalla terra morta. Lo sbocciare dei fiori non è visto come momento di rigenerazione, ma come qualcosa che è male, come il fatto che vengono mescolati memoria e desiderio, che le radici sopite dal sonno invernale vengono risvegliate dalla pioggia di primavera.

L’inverno, la stagione morta, ci ha permesso di restare al caldo, ha coperto la terra di neve immemore. Questo “immemore” va letto in immediata contrapposizione con il fatto che Aprile, invece, risveglia la memoria. Quindi la memoria che dorme è vista come qualcosa di positivo.

L’ estate, momento di vita piena, ci ha sorpresi con uno scroscio di pioggia. Se andiamo al di là di queste immagine e cerchiamo di capire l’insieme di questi rapporti, dobbiamo dedurne che non solo questo Aprile, ma tutti gli “Aprili”, tutte le primavere, hanno questo carattere di crudeltà, questo perché, in riferimento alle altre stagioni, ci si focalizza su un momento preciso e si intende sottolineare il valore simbolico di queste stagioni.

La primavera è vista come giovinezza, dopo l’inverno che, come per la terra, è tempo di preparazione alla vita mentre l’Estate, la maturità, è un tempo che ci sorprende sempre e ci coglie impreparati.

C’è anche un riferimento a un’estate in particolare che “ci ha sorpresi sullo Starnbergersee”. È  l’estate del 1911. Eliot si trova a Monaco e lo Starnbergersee è  un lago. Ma questa estate è un qualcosa a cui non si è preparati. Questa estate è stata una sorpresa per Eliot. Tutte le estati lo sono per l’uomo la cui giovinezza è impreparata ad affrontare il richiamo che Eliot vuole stabilire. È  il periodo immediatamente precedente la guerra, periodo evocato attraverso la presenza di un tipo di società, di nobiltà del tempo (gente altolocata che verrà sorpresa dalla guerra e che viene colta in questi momenti di vacuità, di distacco da ogni attiva realtà).

La presenza delle parole in tedesco sembra che si riferiscano alle memorie di una contessa che Eliot avrebbe conosciuto in questo periodo. “Non sono affatto russa, sono di origine lituana”, queste parole non hanno nessun riferimento con il tessuto del discorso, ma rievocano uno di questi momenti, così come i versi successivi sono trascrizioni di un dialogo, di una memoria; un momento infantile che riaffiora alla memoria.

Negli ultimi due versi Eliot sembra alludere alla vita spensierata che questo tipo di gente conduce e che in fondo è alla base della stessa crisi che si sta manifestando nella società. Questa scena si lega, senza soluzioni di continuità, alle affermazioni iniziali e unisce osservazioni atemporali a momenti ben definiti legati anche ad una esperienza biografica. Eliot ha in mente la Belle Epoque che culmina nella tragedia della guerra. Subito dopo Eliot parla di macerie e contrappone a queste rovine un unico luogo di ristoro, quello che viene rappresentato dall’ombra della rossa roccia interpretabile come la Chiesa, nei confronti della quale provava più terrore che consolazione. Le immagini dell’albero, del grillo, della roccia, rimandano ad immagini precise della Bibbia.

Per l’uomo, che procede con il suo pesante fardello di domande senza risposta, forse la speranza sta all’ombra della roccia rossa (Chiesa). Tuttavia c’è il timore che anche questo riferimento rappresenti un monito per ricordare la “desolazione” nella quale sta vivendo.

 

 Aprile è il più crudele dei mesi, genera

Lillà da terra morta, confondendo

Memoria e desiderio, risvegliando

Le radici sopite con la pioggia della primavera.

L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse

Con immemore neve la terra, nutrì

Con secchi tuberi una vita misera.

L’estate ci sorprese, giungendo sullo Starnbergersee

Con uno scroscio di pioggia: noi ci fermammo sotto il colonnato,

E proseguimmo alla luce del sole, nel Hofgarten,

E bevemmo caffè, e parlammo un’ora intera.

Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch.

E quando eravamo bambini stavamo presso l’arciduca,

Mio cugino, che mi condusse in slitta,

E ne fui spaventata. Mi disse, Marie,

Marie, tieniti forte. E ci lanciammo giù.

Fra le montagne, là ci si sente liberi.

Per la gran parte della notte leggo, d’inverno vado nel sud.

 

Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono

Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo,

Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto

Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,

E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,

L’arida pietra nessun suono d’acque.

C’è solo ombra sotto questa roccia rossa

 

E io vi mostrerò qualcosa di diverso

Dall’ombra vostra che al mattino vi segue a lunghi passi, o dall’ombra

Vostra che a sera incontro a voi si leva;

In una manciata di polvere vi mostrerò la paura.

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