Yukio Mishima: uomo vinto dalla Storia o enigma letterario invincibile? Atto II

Arte, Cultura & Società

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In questo atto secondo del mio personale viaggio estetico e psicologico nell’universo letterario di Mishima, voglio prendere di petto un paio di termini-concetto che, sempre su “Pangea.news”, ho trattato di recente parlando di due scrittori francesi, Pierre Drieu La Rochelle e Jean Cau. Quest’ultimo perfettamente coetaneo del giapponese, essendo entrambi nati nel 1925. È così che vado rapidamente a trattare i temi della decadenza e dell’americanizzazione, più in generale della colonizzazione culturale.
Scrive Mishima nel suo romanzo La decomposizione dell’angelo, ultimo atto della tetralogia Il mare della fertilità, completato il giorno stesso in cui si suicidò: «La vecchiaia è di per sé una malattia della carne e dello spirito, e il fatto che sia incurabile significa che l’esistenza stessa è una malattia incurabile. È una malattia slegata dalle teorie esistenzialistiche, perché la carne stessa rappresenta un’affezione, una morte latente. Se la causa della decadenza è la malattia, allora la causa fondamentale di essa, la carne, è una malattia. L’essenza della carne è la decadenza. La funzione della carne, collocata nel trascorrere del tempo, è quella di testimoniare la distruzione e la decadenza».
Ten’nin gosui (天人五衰), il titolo originale del quarto capitolo della tetralogia, significa letteralmente «i cinque gradi della decadenza dell’angelo». Secondo l’angelologia mutuata dalle sacre scritture buddhiste cinque sono infatti gli stadi di progressiva decomposizione che preludono alla morte di un angelo. Si badi bene: nel buddhismo gli angeli muoiono. Cinque sono appunto i passaggi obbligati del loro avvicinamento alla fine: i fiori che compongono la ghirlanda posta sul capo dell’angelo appassiscono e poi cadono; un’abbondante sudorazione delle ascelle; la veste diafana si insudicia; perdita dell’autocoscienza o della gioia di esistere; il corpo diventa fetido o cessa di essere luminoso e le palpebre cominciano a tremolare. Decadimento, sfaldamento, il puro che s’insozza: tutto questo attraversa il corpo del protagonista del romanzo, che oscilla tra la mimesi e la parodia di una creatura angelica. Siamo tutti angeli decaduti o la maggior parte di noi è soltanto la loro ridicola imitazione, un patetico tentativo di emulazione che sin dagli inizi non può vantare nemmeno un granello di purezza?
Dunque la carne e l’anima, la via del corpo e la via dello spirito. Una negazione esterna che contiene un’affermazione interna. Imperituri dentro un’armatura destinata a deperire, questo noi siamo. Mishima vedeva una strettissima analogia tra la decadenza del Giappone del secondo dopoguerra e la decomposizione degli angeli della tradizione buddhista (che appunto decadono e muoiono). Il disfacimento di una civiltà millenaria corrotta e corrosa da una malintesa idea di sviluppo. «Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito?», proclamerà, fra l’altro, nel discorso tenuto dal balcone della caserma prima di compiere il suicidio rituale. La ricerca di una ricomposizione tra corpo e spirito è tema mishimiano su cui tornerò prossimamente.
Per affrontare il secondo tema riavvolgo il nastro e torno ad un Mishima che ha tra i ventisei e i ventisette anni. La scoperta di sé e della propria terra madre attraverso il riflesso che gli rimandano i simulacri dell’Occidente, sia Nuovo Mondo che Vecchia Europa: questo è il senso del viaggio compiuto da Mishima in Nordamerica, Brasile ed Europa tra 1951 e 1952. Giovanissimo, è già famoso in patria grazie alla pubblicazione nel 1949 delle sue Confessioni di una maschera. Alla vigilia di Natale del 1951 si accinge a partire per il suo primo viaggio all’estero con il fermo proposito di eccitare la propria curiosità intellettuale. Ne verrà fuori un diario, tradotto in Italia col titolo La coppa di Apollo (1993). L’impatto iniziale per il lettore è deludente, va detto. Le pagine scorrono via, una dopo l’altra, insipide e monotone.
Cos’è che non funziona? Credo si celi in queste annotazioni diaristiche un tratto troppo costruito della personalità dello scrittore giapponese. Egli indugia nella descrizione minuta delle immagini che gli scorrono davanti, ma, al di là dei proclami iniziali, egli non sperpera più di tanto la sua acuta sensibilità. È come trattenuto. Si ha netta l’impressione di un esercizio forzatamente autoimposto, nell’ossessiva ricerca della miglior forma di espressione delle sensazioni ed inquietudini che, fitte e violente, lo assalivano ogni giorno.
Il dandysmo mishimiano nasce con la sua infanzia negata, allevato da una nonna severa, che letteralmente sottrae alla figlia il nipote quarantanove giorni dopo la nascita e lo educa in una dimensione rigida e claustrofobica. A proposito della nonna Marguerite Yourcenar ha scritto nel suo celebre ritratto Mishima o La visione del vuoto (1980): «tutto un Giappone antico, ma già in parte dimenticato, sopravvive in lei sotto forma di una figura malaticcia, un po’ isterica, soggetta a reumatismi e a nevralgia cranica». Alla madre sarà permesso visitarlo solo ogni quattro ore e per il tempo appena necessario all’allattamento. Così fino all’età di nove anni circa. Fatale l’impronta di quella nonna austera, che lo aveva educato alla letteratura classica giapponese e alle forme del teatro tradizionale Nō e Kabuki. Sempre la Yourcenar ebbe a scrivere di lei: «questa fata folle gli ha certo trasmesso quel grano di pazzia giudicato un tempo necessario al genio, in ogni caso gli ha procurato quell’esperienza retrospettiva di due generazioni, a volte anche più, che possiede un bambino che è cresciuto vicino a una persona anziana». E aggiunse, concludendo: «A quel contatto precoce con un’anima e una carne malate egli dovette forse, prezioso insegnamento, la sua prima impressione dell’estraneità delle cose. Ma, soprattutto, gli valse l’esperienza d’essere gelosamente e follemente amato, e di corrispondere a quel grande amore». Avevo un’innamorata di sessant’anni, sentenziò Mishima: un inizio simile è tutto tempo guadagnato, commentò Yourcenar.

È pertanto di una fattura speciale il suo dandysmo. Se questo è sinonimo di impassibilità e nemico del sentimentalismo secondo il canone statuito in Occidente da Charles Baudelaire, la versione di Mishima ne stabilisce un’originale, inimitabile simbiosi con il buddismo del bonzo Nichiren (1222-1282), per il quale «bisogna cambiare nell’uomo la struttura dei desideri», sottoporre lo spirito ad un continuo rimodellamento, educarlo. Sempre Baudelaire sottolineava come ciò che è naturale è abominevole, perché volgare. Piacevole il ritratto che Mishima fa delle Hawaii, dove il paesaggio si è trasformato a immagine e somiglianza della pubblicità turistica ma la vita quotidiana non si è ancora del tutto piegata ai modelli di vita stranieri. Ciò grazie all’ozio, quell’«arte peculiare dei tropici di saper stare senza far niente», che avrebbe assicurato alle isole un futuro non soggetto all’ansia della società americana. E nonostante tutto già s’intravede affiorare tra i giovani il germe dell’inquietudine da nichilismo, minaccia per quell’equilibrio che è frutto di un rapporto naturale con i propri simili e con l’ambiente in cui si è immersi. Una vita ritmata dal tempo ciclico della natura. Armonia che manca negli Stati Uniti, mentre nell’arcipelago delle Hawaii non è stata perduta l’«antica unione emotiva tra la natura di un territorio e la storia di un popolo», che, a giudizio di Mishima, sola può dare identità ad una nazione, vita ad una civiltà.
Perché manca un tale legame? «La natura degli Stati Uniti non è innata ma acquisita. La natura di questo paese dipende in tutti i sensi dal fatto che non era destinata a chi lo abita». Detto ciò, Mishima non dimentica che la forza del dominatore si giova della debolezza del dominato e se la colonizzazione culturale avanza è perché il popolo dominato non è neppure in grado di infiltrare «subdolamente» i propri costumi, di inculturare l’aggressore con proprie usanze e tradizioni, azione che, come ricordava David Hume in un suo scritto giovanile tradotto in Italia da Spartaco Pupo, i romani seppero compiere egregiamente nei confronti dei loro invasori barbari. Anche in modo parzialmente involontario e impercettibile, senza dubbio; surrettiziamente ma con perdurante efficacia. E così continua la riflessione di Mishima, al contempo ironica e seria: «L’americanizzazione di altri paesi non è certo solo espressione delle buone intenzioni degli americani».
L’anima del giovane esteta è però destinata a risvegliarsi una volta giunto in Grecia. È qui che ritroviamo il Mishima che tutti conoscono, «kamikaze alla caccia del bello». Se Parigi gli è apparsa come una crepuscolare città immersa in una grigia primavera, non può che, entusiasta, dichiarare: «la Grecia è la terra che amo», perché nell’arte e nell’estetica elleniche trova conferme decisive di quella che è la propria concezione della bellezza. Quest’ultima, unica ed immutabile, «la si ottiene soltanto con un’azione», consapevoli del fatto che «la creazione nasce spesso da un presentimento di distruzione». Emerse, a suo tempo, in terra greca una concezione dell’arte come via che assicura e conferma circa l’immortalità dell’anima. I greci si illusero – dovettero illudersi, avrebbe detto Nietzsche – di poter ricomporre la vita, vincendo le leggi della natura che decretano la caducità di ogni cosa. Sarebbe proprio vero quanto affermato da Paul Valéry: «l’ordine è un grandioso progetto contro natura», a cui l’uomo, in passato, ha sempre teso. Viene da chiedersi – a Mishima allora, a noi oggi – se un tale progetto sia stato oramai abbandonato. L’ordine in nome del bello, del vero e del bene.
È forse ancora nietzscheano, Mishima, quando rileva la «grandiosità» dell’idea greca dell’esteriorità, per cui non vi sarebbe conflitto né divisione tra anima e corpo. Nell’Ellade non si sentiva ancora la fatica per il fardello dello «spirito» che il cristianesimo avrebbe imposto ad un uomo che, scrive il giapponese, «non ne sentiva la mancanza e viveva con orgoglio». La culla della civiltà classica trasmette soprattutto al giovane scrittore giapponese un aspetto essenziale dell’arte intesa come messa in forma della bellezza al fine di renderla comunicabile senza stravolgerla e svergognarla: la solennità, che, a sua volta, ha a che fare con la dimensione sacra e la tensione alla trascendenza che della bellezza sono due connotati imprescindibili. L’arte veicola bellezza facendosi solenne. La cerimonia, il rito e il sacrificio consentono di contenere il grandioso nel piccolo e minuto; attuano l’incantesimo grazie al quale è dato assistere allo spettacolo dell’eterno racchiuso in un istante.
Tra il 1957 e il 1958 Mishima avrebbe compiuto un altro viaggio in Occidente. Si recò infatti ad Haiti, alla ricerca di un autentico rito vudù. Poi andò a New York, dove si abbandonò alla vita frenetica della grande metropoli americana. Note di viaggio sono riservate anche a Venezia, «la rappresentazione più chiara della decadenza», irrimediabile eppure infinita. Una vecchia aristocratica, dagli abiti un tempo sontuosi ora laceri ed ammuffiti, che però «sta morendo in piedi». A Hong Kong, infine, s’imbatté nel Tiger Balm Garden, uno dei primi parchi a tema che era stato aperto al pubblico proprio agli inizi degli anni Cinquanta. Lì Mishima dovette confrontarsi con l’antitesi della bellezza, con la sua negazione, dovuta al fatto che in architettura come altrove il realismo totale, riprodotto mimeticamente fino all’eccesso del dettaglio, è incapace di librarsi di un palmo da terra. Invece, anche ai fini di una semplice rigenerazione urbana, la vera arte è sempre e solo trasfigurazione, incessante ripensamento della tradizione, con cui ingaggiare lotte furibonde che non sradicano ma rigenerano le antiche sorgenti della bellezza. Infatti al termine di questi suoi viaggi all’estero Mishima si chiede sempre, pensando ai propri connazionali: come può sfuggire alla decadenza un popolo per cui «le cose nuove sono sempre buone»?
Poggiando i piedi su rami tagliati non si scruta l’orizzonte, si precipita.(Fine Atto II)

[articolo uscito su «Pangea. Rivista avventuriera di cultura & idee», 28 luglio 2020. Ringrazio per l’ospitalità il direttore Davide Brullo]

Danilo Breschi

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