I Delitti contro l’eguaglianza si colorano arcobaleno

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Avv. Diletta Francesca Volpe

Fino agli anni Novanta gli orientamenti sessuali diversi dalla eterosessualità erano considerati una patologia, un morbo da curare e solo il 17 maggio 1990 l’OMS ha “derubricato” l’omosessualità dall’alveo delle malattie mentali definendola “una variante naturale del comportamento sessuale umano”.

A conferma di ciò, si segnala che fino al 1973 l’ “omosessualità egosintonica” era contemplata nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), mentre si dovrà attendere il 1987 per assistere all’espunzione dal DSM della voce “omosessualità egodistonica”.

Alla luce delle predette risultanze scientifiche si è aperto un acceso dibattito sociale e politico sul riconoscimento dei diritti dei soggetti LGBT, nonché sulla crescente necessità di tutela degli stessi.

Del pari, anche le istanze di ampliamento dei diritti delle donne sono state oggetto di plurimi interventi legislativi, nei più svariati settori e, soprattutto, in materia penale.

A titolo meramente esemplificativo, solo un anno fa è stata emanata la legge n. 69/2019, meglio nota come Codice Rosso, al fine di contrastare la violenza ed i maltrattamenti posti in essere in danno delle donne.

Orbene, la proposta di legge che verrà discussa in Commissione Giustizia martedì 7 luglio 2020 è una sintesi di cinque diverse proposte e, segnatamente, la C 107 Boldrini, C 569 Zan, C 868 Scalfarotto, C 2171 Perantoni e la C 2255 Bartolozzi, tutte miranti a modificare gli artt. 604 bis e 604 ter del codice penale in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale e identità di genere.

La proposta di legge de quo contiene anche misure attive e programmatiche attraverso le quali si auspica di prevenire la commissione di condotte violente e discriminatorie. In particolare, è prevista l’istituzione di una giornata contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, l’istituzionalizzazione di un sistema di raccolta statistica dei dati, essenziale per evitare la sottostima del numero dei reati di matrice discriminatoria, l’ampliamento al supporto dei centri antiviolenza, l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in deroga ai requisiti di legge, consentendo l’accesso al favore processuale già previsto per le persone che versano in condizioni di particolare vulnerabilità.

Per quanto riguarda la tecnica di legiferazione, la novella si presenta come un modello misto che prevede l’introduzione di una nuova incriminazione e l’aggravante per i reati comuni, attraverso l’emendatio, rispettivamente, degli artt. 604 bis e 604 ter c.p..

Preliminarmente, è opportuno rappresentare che i precitati articoli siano stati collocati nel codice penale e, in particolare, nel Libro II, Titolo XII (Delitti contro la persona), Sezione I bis, introdotta dall’art. 2 comma 1 lett. i) del D.lgs. 1 marzo 2018 n. 21 che ha previsto la cosiddetta “riserva di codice” in materia penale.

Invero, gli artt. 604 bis e 604 ter, confluiti nel codice penale all’interno della neoistituita Sezione I bis avente la rubrica “Delitti contro l’eguaglianza”, costituiscono la riproduzione della normativa prevista dalla legge 25 giugno 1993 n. 205 (cd. Legge Mancino) che, in uno con la legge 22 maggio 1975 n. 152 (cd. Legge Reale), ha rappresentato il referente normativo privilegiato in materia di condotte discriminatorie.

L’attuale previsione normativa contenuta nell’art. 604 bis c.p. prevede la punizione di chiunque “propaganda idee fondate sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” (lett. a); “istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”(lett. b).

Il secondo comma vieta la condotta istigativa nella forma plurisoggettiva – associativa e segnatamente recita “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni”.

Ebbene, si tratta di una norma a più fattispecie a mezzo della quale il Legislatore esprime la sua volontà di ritenere penalmente rilevanti e, dunque, meritevoli di pena differenti condotte: a) la propaganda di idee fondate sull’odio; b) l’istigazione alla commissione di atti di discriminazione; c) il compimento di atti discriminatori; d) la commissione delle corrispondenti fattispecie associative.

La novella legislativa si propone di ampliare l’ambito di applicazione della precitata norma alle ipotesi in cui le condotte discriminatorie siano fondate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, escludendo da tale estensione la fattispecie di cui alla lettera a), consistente nell’attività di propaganda, che rimarrebbe applicabile ai soli in casi in cui oggetto della stessa siano “idee fondate sull’odio razziale o etnico”.

La riforma di cui si discorre prevede anche l’estensione dell’ambito applicativo della circostanza aggravante di cui all’art. 604 ter c.p. in quanto stabilisce la ricorrenza della stessa nell’ipotesi in cui “i reati puniti con pena diversa da quella dell’ergastolo” siano “commessi per finalità di discriminazione o di odio” fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, in addizione a quelli per i quali l’aggravante è già applicabile ovvero per quei reati commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale, nazionale o religioso.

Ebbene, risulta evidente che la materia in cui il Legislatore sta assumendo le scelte che gli competono in ragione del monopolio spettantigli in materia penale è quantomai sensibile e coinvolge ambiti della vita di relazione che devono essere disciplinati con estrema attenzione e cura.

Sotto un primo profilo, infatti, sin dall’entrata in vigore delle leggi Reale – Mancino si assiste ad un acceso dibattito in ordine all’armonizzazione tra la tutela dei soggetti discriminati e la compressione di altre libertà, parimenti previste dalla Carta Costituzionale.

Dunque, la novella persegue la finalità di incriminare una ulteriore species del genus degli hate crimes (“reati d’odio”), di cui gli hate speeches (“discorsi di odio”) costituiscono una, ma non l’unica, manifestazione ovvero quelli fondati sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere della vittima.

In sede europea, l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione ha elaborato una definizione esaustiva dei crimini d’odio, evidenziando che questi si compongono di due elementi: a) una condotta costituente reato; b) la commissione di tale condotta deve essere ispirata da un motivo di pregiudizio (bias) contro una caratteristica protetta.

In definitiva, l’agente agisce mosso da un pre – giudizio e pone in essere una condotta pregiudizievole nei confronti di un soggetto, non come singolo, ma perché possiede una caratteristica ascrittiva e, dunque, in ragione della sua appartenenza ad una “categoria”.

Tanto in letteratura quanto in giurisprudenza la criminalizzazione dei reati d’odio ha sempre destato preoccupazione e perplessità in ragione dell’atteggiarsi dei diritti da essi presidiati con altre libertà di rango costituzionale, prima fra tutte, quella di manifestazione del pensiero.

Il pericolo che si prefigura è che, invece di punire delitti di odio, si possano punire reati di opinione.

Ebbene, la prima censura avverso l’introduzione di una norma che incrimini hate crimes fondati sul pregiudizio dell’orientamento sessuale o dell’identità genere consiste, appunto, nella incompatibilità con il diritto previsto dall’art. 21 Cost., il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.

In argomento, deve ribadirsi come per ragionare sulla effettiva portata di una libertà fondamentale è necessario avere riguardo alle modalità con cui tale libertà si atteggia in relazione alle altre: siffatto rilievo è alla base del cd. bilanciamento dei diritti, a mezzo del quale il Legislatore, nel rispetto dei principi informatori della Carta costituzionale, dirime gli apparenti conflitti tra le libertà.

Pertanto, come ha più volte osservato la Corte Costituzionale, la libertà di manifestazione del pensiero ben può incontrare un limite legittimo nella tutela della dignità dell’uomo, nella salvaguardia della persona umana.

Vieppiù che il reato di nuova introduzione non andrebbe a punire la condotta di “propaganda delle idee”, che oggi è sanzionata se avente ad oggetto ideologie fondate sull’odio razziale ed etnico.

In secondo luogo, i sostenitori della tesi contraria alla novella lamentano un deficit di determinatezza della formulazione legislativa di nuovo conio, sì da incorrere nella violazione del superiore principio di legalità (art. 25 Cost.), sub specie del suo precitato corollario.  

In merito, preme rilevare come siano state obliterate le proposte che prevedevano la sanzione di condotte “omofobiche” o “omotransfobiche”, in ragione del rilievo che su tali termini non vi fosse una definizione univoca.

De iure condendo, infatti, si propone di incriminare condotte lesive che si fondino sulla discriminazione di “genere”, “orientamento sessuale” e “identità di genere”: si tratta di elementi descrittivi della fattispecie, né vaghi né indeterminati.

Sebbene, si sia in presenza di lemmi evidentemente comprensibili sotto il profilo naturalistico, non si potrebbe giammai negare la loro sussumibilità nell’alveo degli elementi normativi extragiuridici, pacificamente utilizzati dal legislatore penale ed insuscettibili di porsi in contrasto con il principio di legalità – precisione.

Parimenti, la nozione di discriminazione, oltre a presentare un nucleo semantico minimo facilmente riconoscibile nell’ambito del linguaggio comune, è rinvenibile in plurime disposizioni di legge, nazionali e sovranazionali (ex multis: art. 2 comma 1, D.lgs. 216/2003, art. 43 D.lgs. 286/1998; artt. 10, 14 e 17 CEDU come interpretati dalla giurisprudenza della Corte EDU).

Per quanto attiene la scelta terminologica si segnala come l’aver optato per il sintagma “genere – identità” permetta di superare l’ulteriore argomentazione contraria consistente nel pericolo di incorrere nel fenomeno della cd. “discriminazione inversa”: semplificando, si teme che ad essere discriminati possano essere coloro i quali non appartengono a “categorie protette”.

Ebbene, l’utilizzo del termine “genere” consentirebbe anche l’incriminazione di condotte discriminatorie poste in essere in danno della “categoria” degli eterosessuali, ovvero degli “uomini”, qualora dovessero essere vittime di reati fondati sull’odio verso il loro genere o il loro orientamento sessuale.

L’ulteriore perplessità prospettata in merito alla scelta della lettera normativa attiene il rilievo per cui la previsione di una fattispecie siffatta impedirebbe di “criticare” condotte quali la sodomia, il masochismo e il feticismo.

In argomento, preme evidenziare come tale doglianza sia, quantomeno, pretestuosa: in primis, l’esercizio di un diritto, sub specie di diritto di critica, continuerebbe a costituire causa di giustificazione della condotta, laddove esercitato con modalità legittime; in secundis, all’evidenza, si tratta di “pratiche sessuali” che in alcun modo possono essere ricondotte nella lettera della norma.

Ed ancora, i fautori della tesi contraria alla riforma evidenziano che con la nuova formulazione si andrebbero a punire anche fatti inoffensivi, si andrebbe a punire un’idea contraria al pensiero comune, evidentemente inaccettabile in uno Stato democratico – pluralista che fonda il sistema penale sulla punizione di un fatto colpevole e offensivo (art. 27 Cost.) e non su una concezione estetica del diritto.

In argomento, preme rilevare come per i delitti di istigazione a delinquere si sia sempre avvertita la necessità di individuare una soglia concreta di offensività:     tanto la giurisprudenza costituzionale quanto quella ordinaria di legittimità non hanno mancato di sottolineare come “un reato di pericolo” (tale è la fattispecie delineata dall’art. 604 bis c.p. vigente) si perfeziona “indipendentemente dalla circostanza che l’istigazione sia accolta dal destinatario”, ma resta “necessario valutare la concreta ed intrinseca capacità della condotta a determinare altri a compiere un’azione violenta con riferimento al contesto specifico ed alle modalità del fatto”.

In conclusione, la novella si prefigge lo scopo di tutelare la dignità delle persone prima che ad essere messi in pericolo siano i beni della vita e dell’incolumità fisica, non mira a limitare la circolazione di idee nella vita pubblica.

La riforma nasce dalla improcrastinabile esigenza di colmare una lacuna legislativa, volontaria ma anacronistica: per tale ragione, si propone di espandere l’ambito di applicazione di una fattispecie posta a tutela di soggetti che subiscono stigmatizzazione e violenza pregiudiziale.

Dalle analisi svolte dall’OSCAD (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori istituito presso la Polizia di Stato del Ministero dell’Interno) e dall’UNAR (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri) emerge un dato allarmante che cristallizza come la discriminazione e la violenza per ragioni di genere, orientamento sessuale ed identità di genere costituiscano un fattore di grave allarme sociale.

A ciò si aggiunga che siamo uno dei pochi paesi dell’Eurozona che ancora non prevede la punizione di crimini mossi dall’odio di genere.

I dati raccolti dall’OSCAD e dall’UNAR dovrebbero ancor più allarmare se si considera che si tratta di risultanze che soffrono dei cosiddetti under – reporting ed under – recording: le discriminazioni e le violenze nei confronti di donne e soggetti LGBT sono raramente denunciate perché le vittime, in assenza di una norma penale che le tuteli, sono dissuase dal denunciare, non si sentono “protette” da una normativa ad hoc.

Tanto è stato rilevato dai Paesi, europei e non, all’indomani dell’introduzione di una normativa che incriminasse la violenza di genere come reato e l’esperienza nazionale ha confermato questo dato rispetto alle condotte di cui all’art. 612 bis c.p. (c.d. stalking): da quando il delitto di “atti persecutori” è stato codificato (legge n. 38/2009), le denunce per agiti sussumibili in detta norma sono aumentate esponenzialmente.

In conclusione, sarebbe contrario al principio di uguaglianza non assicurare un trattamento differenziato a situazioni diseguali ovvero perdere l’occasione di rimuovere un ostacolo che impedisce, o comunque limita gravemente, lo sviluppo della personalità.

La proposta di legge in argomento offre un ulteriore strumento di tutela alle donne ed alle persone che appartengono alla comunità LGBT, soggetti che non sono più deboli o più vulnerabili (si badi a non incorrere in un riconoscimento legalizzato di “inferiorità”) ma che, più di altri, divengono vittime in ragione della loro appartenenza ad una categoria. 

Ed è per tale ragione che si potrebbe considerare legittimo l’intervento del Legislatore in una materia sensibile che coinvolge l’etica, la morale ed il credo dei singoli; l’auspicio è che in futuro non si debba discorrere di discriminazioni di genere perché la sinergia tra lo strumento penale e le misure propulsive che riguardano anche (e, soprattutto) il profilo educativo avrà raggiuto l’obiettivo di superare il bias (il pregiudizio) senza intaccare le convinzioni personali che, appunto, sono il frutto di analisi e conoscenza e non di un giudizio aprioristico.

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