La Paglia, Il Grano e il Vento Quando si “spagliava”

Arte, Cultura & Società

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Anni addietro quando mi affacciavo al balcone, avevo sotto di me il mare, lo Ionio sconfinato, ruggente, spumeggiante o placido. Oggi vedo 20 mila metri cubi d’acqua e una piscina di plastica, fuori terra.

Ma vedo anche bellissimi campi di grano distesi sulle leggiadre e dolci “rive” delle terre astigiane. Un giallo mar dolce e silente, tanto per parafrasare il Vate.

Ci sono i contadini e le loro macchine. La grande mietitrebbia falcia, divide il chicco dalla paglia, che lascia dietro di se; questa seguirà destini diversi rispetto al chicco sin lì protetto e nutrito.

Non così veloce era il lavoro tra la mia gente di Sicilia, due volte di fatica in più per falciare a mano le spighe e separarne le parti. Nulla di meccanico sulle alture terrazzate dei borghi bagnati dall’Alcantara. Il fiume che nasce presso il più alto comune di Sicilia (1275 m. s.l.m.) e che lasciandosi cadere per dirupi sfiora la città del ciclope Piracmone (Randazzo) per poi vorticosamente scendere verso il mare ricamando tra i basalti di antiche colate laviche gole e anfratti (Gole dell’Alcantara) e, quindi, distendersi ove il calcidese Teocle fondò la prima colonia greca in Sicilia (734 a.c.): Naxos.

Si intra l’aria nun si….. 

“Si intra l’aria nun si mentri spaglia,sarai prestu riduttu a pani e aglia”.

(Se non sei nell’aia mentre si spaglia, presto sarai ridotto a pane e aglio)

Aveva una circonferenza di alcuni metri ”l’aria” (l’aia); il fondo in terra battuta e tutt’attorno un recinto di pietre piane simile alle lose piemontesi, utile accorgimento volto a trattenere all’interno del recinto i fasci di grano. Un mulo, solitamente, trainando una grossa pietra girava per ore e ore mentre gli uomini gettavano tra la bestia e il peso, usando un forcone in legno ingenti quantità di spighe. Queste sarebbero state triturate  dagli zoccoli del mulo e soprattutto dalla pietra che passava loro sopra separando così  i chicchi dalla spiga. Quando si accumulava un bel po’ di questo miscuglio di paglia e grano ci si fermava per attendere il vento. E, “O vientu, o vientu viva lu Santissimu Sacramentu” s’invocava.

Appena un refolo muoveva il fazzoletto legato a una pertica, tutti dentro l’aia dove iniziava il rito dello “spagliare”, ed era sudore, ma di quello vero, sotto il sole siciliano di giugno. Con tridenti e pale in legno  si raccoglieva quel composto sgranato dal lavoro del mulo e della pietra e lo si lanciava in aria. Il vento avrebbe portato più lontano la paglia leggera e lasciato cadere sul posto i chicchi, più pesanti.

La trebbiatura, per quanto faticosa viepiù in quanto  fatta con mezzi arcaici era un culto. Non poteva non essere accompagnata da canti e balli fisarmoniche e chitarre, vino e allegria. Da  eco in eco tra le valli si intrecciavano gli stornelli a dispetto e i ragazzi chiassosi saltavano nei covoni di paglia, poco badando ai richiami degli adulti in ansia per la loro incolumità.

Le donne avevano tutte una magnifica voce intonata, i fianchi ad anfora e l’equilibrio innato delle portatrici di quartare (anfore) sulla testa.

Altri mondi, altri tempi. Quelli descritti appartenevano a quando si “spagliava”.

Giuseppe Rinaldi

girinaldi@libero.it

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