Emanuele Brunatto – Il torinese difensore di padre Pio

Piemonte

Di

Quel giorno, in una San Giovanni Rotondo (Foggia) in festa, migliaia di persone provenienti da tutto il mondo si apprestavano a festeggiare Padre Pio ed i 50 anni trascorsi dal giorno in cui aveva ricevuto le stigmate. Il frate vecchio, malato e stanco si era predisposto all’evento con l’umiltà che lo contraddistingueva e per “santa obbedienza” aveva dovuto arrendersi alla disposizione impartita dal Superiore del convento, padre Carmelo di San Giovanni in Galdo, a celebrare una funzione “solenne”, vale a dire Messa cantata.

Per il santo del Gargano quella funzione religiosa costituì un’ulteriore passo sul Calvario, e tanta fu la sofferenza e la prostrazione che patì che un collasso lo colse sul finire della Messa, e solo il pronto intervento del robusto padre Guglielmo gli evitò una dannosa caduta. Testimonianza di tutto ciò è data dalle riprese foto-cinematografiche dell’evento. Riprese che, non solo pongono in evidenza la gravità dello stato di salute in cui versava il frate quel giorno, ma documentano esaurientemente anche l’accadimento di un fatto in spiegabile alla luce della scienza: vale a dire la progressiva scomparsa delle piaghe di cristo dal corpo del frate di Pietrelcina. L’ultima crosticina (escara) che aveva sin lì coperto il foro del palmo di una mano era caduta sull’altare, durante quella sofferta Messa, ed i presenti, con enorme sorpresa, avevano potuto intravedere le mani del frate quasi completamente guarite.
Fra tutti ne è testimone diretto padre Alberto D’Apolito che precisa, nel corso di una intervista televisiva, d’aver raccolto lui stesso, dalla tovaglia dell’altare, l’escara della mano sinistra che aveva in precedenza visto cadere. Il fatto miracoloso aveva una sola spiegazione: Padre Pio stava morendo. Con la scomparsa dei segni delle piaghe di Gesù, si concludeva la testimonianza terrena della “sua” personalissima passione e morte in croce. Infatti, sul nascere del giorno seguente a questi fatti, alle ore 2,30 del 23 settembre del 1968, il Santo del Gargano reclinava serenamente il capo, e nella cella n. 5 del convento scendeva l’ala cristiana della morte e, per chi crede, della rinascita.
Tra i tanti che assistettero alle ultime ore del frate , era però assente uno degli uomini a lui più cari. Un uomo che senza indugi si era posto in prima linea, rischiando e pagando di persona, nella difesa di padre Pio ai tempi delle persecuzioni della Chiesa. Un uomo che a causa della sua esistenza travagliata, controversa e financo dubbia, è spesso ignorato dalle biografie ufficiali del Santo, ma cui va fatta giustizia di notorietà, se non altro, per l’abnegazione dimostrata ed i servigi resi al frate. Ci riferiamo al torinese Emanuele Brunatto che, unitamente all’ex sindaco di S. Giovanni Rotondo, Francesco Morcaldi, costituì la linea di difesa più avanzata e strenue contro le disposizioni emanate dall’allora Sant’Uffizio contro il frate stigmatizzato del Gargano. Un uomo che è stato tra l’altro il testimone vivente di un tenue filo che unisce tutt’ora virtualmente tre notissimi centri della cristianità: Pietrelcina, San Giovanni Rotondo e Castelnuovo Don Bosco. E ciò in quanto Emanuele Brunatto, diletto figlio spirituale di Padre Pio, era a sua volta figlio di un devoto quanto affezionato discepolo di Don Giovanni Bosco, morto si dice santamente.
Il nostro uomo nasce a Torino, nel 1892 da una famiglia non ricca ma benestante. Educato dai salesiani subisce anche il fascino della vita sacerdotale, ma ben presto abbandonerà l’idea in quanto come da lui stesso dichiarato “ …Le femmine mi attiravano più del lavoro, la sensualità mi rendeva instabile ed incoerente. Non avevo ancora vent’anni che misi il colmo alle mie incongruenze con un matrimonio disastroso. La fidanzata, che era la mia amante, aveva undici anni più di me e un galante passato. Le sue sorelle erano ancora più esperimentate di lei e suo fratello espiava in Germania una lunga condanna per associazione di malfattori…” ( da Padre Pio il Santo dei miracoli di Renzo Allegri – Mondatori).
E’ intuibile che, con simili premesse ben difficilmente Emanuele poteva maturare come uno “stinco di santo”, ed infatti, nella prima parte della sua vita lo troviamo processato e condannato a causa d’ irregolarità amministrative commesse sotto le armi allo scoppio della prima guerra mondiale. Espiata la pena, lo si intravede, con una sciantosa con la quale organizzerà spettacoli di piazza e quindi in un avvicendarsi di buona e cattiva sorte lo si incontrerà come scrittore, ballerino di avanspettacolo e sarto di notevole successo, tanto da ricevere le felicitazioni dei reali d’Italia. Poi, eccolo a Catania dove ha contatti con il famoso comico siciliano Angelo Musco, forse per ragioni artistiche o fors’anche per affari legati alla compra-vendita di vini ed agrumi. Ma il capolavoro di quest’uomo, l’impegno che costituirà la sua opera terrena da ricordare e che certo gli è valsa il riscatto dalle intemperanze e sregolatezze giovanili, è stata l’attività di difesa che il medesimo ha posto al servizio di Padre Pio, smontando una ad una tutte le accuse di empietà, di violazione dei voti di castità e povertà, mosse al frate, non solo dal clero secolare della zona per invidia, ma addirittura avanzate, sempre per gelosia, anche dall’arcivescovo di Manfredonia Pasquale Gagliardi. Costui, infatti, approfittando della sua carica e delle conoscenze che aveva in seno ai palazzi del Vaticano riuscì a muovere addirittura il Sant’Uffizio a danno del Padre che, da li a poco, sarà al centro di una serie di angherie per le quali la Chiesa oggi ha fatto ammenda dichiarando il frate Santo e stabilendo la sua festa il 23 settembre di ogni anno.

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^

L’estate su San Giovanni Rotondo, in quel luglio del 1923, si era dispiegata tersa e la calura era, per fortuna, mitigata spesso dalla fresca brezza che le alture del Gargano alitano sul Pattariello (luogo ove sorge il chiostro che ospitò Padre Pio) per dirigersi poi verso la pianura della Capitanata. Il Padre guardiano del convento aveva fatto di tutto perché Padre Pio non venisse a conoscenza, brutalmente, di quanto la Santa Sede gli aveva riservato a seguito delle maldicenze coltivate a suo danno sopratutto dai prelati della Chiesa locale, ma quando in sede giunse il periodico francescano “Analecta Capucinorum”, che i confratelli erano soliti leggere per conoscere le novità dell’Ordine, al frate stigmatizzato non fu più possibile celare la verità. E così egli stesso apprese, da quelle pagine, la sentenza che lo riguardava, emessa dal Sant’Uffizio in data 31 maggio di quell’anno: “La Suprema Congregazione del Sant’Uffizio (oggi chiamata Sacra Congregazione per la Fede e i Costumi, n.d.A.), preposta alla fede e alla difesa dei costumi, dopo un’inchiesta sui fatti attribuiti a Padre Pio da Pietrelcina ( leggi: miracoli e stigmatizzazione, n.d.A.) dei frati minori cappuccini del convento di San Giovanni Rotondo nella diocesi di Foggia, dichiara non constare da tale inchiesta della soprannaturalità di quei fatti ed esorta i fedeli a conformarsi nel loro modo di agire a questa dichiarazione”. Questa sconfessione faceva seguito ad un precedente intervento di condanna datato 2 giugno 1922, con il quale si ordinava al frate ( al fine di allontanarlo dai fedeli ) di celebrare Messa unicamente “summo mane” vale a dire di mattina prestissimo.
Di certo, all’atteggiamento delle Stanze vaticane non era stata del tutto estranea la relazione che su Padre Pio inviò alla Santa Sede il potentissimo Padre Agostino Gemelli, stimato francescano, filosofo e psicologo, fondatore dell’Università cattolica del Sacro Cuore, personaggio ascoltato e rispettato. Relazione che seguì una sua visita al Santo, avvenuta il 18 aprile 1920. Il fatto che il Padre avesse negato all’illustre scienziato la possibilità di “visitare” le stigmate in assenza di precisa autorizzazione a farlo, giocò sicuramente in modo negativo sul giudizio da emettere.
Fatto sta che il significato delle disposizioni emanate aveva un solo vero significato, al di là della forma: la Chiesa considerava Padre Pio alla stregua di un imbroglione e di un auto lesionista. Ma più che i Palazzi vaticani contò la fede della gente che, nonostante tutto e tutti, continuava ad affollare il sacrato del convento di San Giovanni Rotondo, per vedere il “santo”, per toccarlo, confessarsi da lui, assistere alla sua lunghissima Messa ( durava circa due ore), chiedergli l’intercessione per una grazia. Constatato ciò il Sant’Uffizio rincarò la dose con altri provvedimenti, datati rispettivamente 24 luglio 1924, quindi 11 e 23 luglio 1926, ed infine 23 maggio 1931; progressivamente attraverso questa mole di interventi sanzionatori fù proibito a Padre Pio di dire Messa in pubblico, confessare i fedeli, intrattenersi con loro. Il frate, in definitiva, fu un “recluso” in convento.
Ma vicino a costui, per fortuna, s’aggirava la figura di un torinese testardo ed amico sino all’abnegazione, quel Brunatto di cui abbiamo detto in precedenza e che, conosciuto il Padre nel 1919, tanto rimase affascinato da fare l’impossibile per stargli vicino, sino a trasferirsi nel convento occupando la cella accanto alla sua, la numero sei. Da quell’osservatorio privilegiato poté assistere a tutte le umiliazioni che, con dolore ed umiltà, per “santa obbedienza”, il suo padre spirituale subiva e tollerava. Ma quando la misura fu colma, quando un ordine dell’autorità ecclesiastica proibì al Brunatto di continuare ad abitare nel chiostro, quand’ebbe la certezza che i più accaniti nemici del religioso si nascondevano proprio dietro abiti talari o sai monacali, allora raccolse le sue cose, salutò Padre Pio e sordo al suo richiamo – “ …bisogna baciare la mano della Chiesa anche quando ti percuote…”, – ridiscese la collina verso la città. E quando il Pattariello fu piccolo piccolo alle sue spalle capì che da lì iniziava il momento della riscossa. Lui non era un santo e non aveva mai pensato di diventarlo; forse ricordava la risposta che il monaco aveva dato ad una fedele che aveva dichiarato : “Padre voglio farmi santa”, “Va bene figlia mia, ma sappi che è una vita da cani”.
Emanuele Brunatto sapeva scrivere ( durante la sua permanenza a San Giovanni Rotondo aveva anche steso un dramma teatrale commissionatogli da un teatro romano), era un affascinante interlocutore, un acuto osservatore straordinariamente portato all’analisi ed alle deduzioni, ma soprattutto conosceva gli uomini, cosicché si mise alla ricerca delle prove dell’innocenza di Padre Pio. Il risultato fu:
 Partecipa all’arresto del canonico Miscio Giovanni che, attraverso la minaccia della pubblicazione di un libello contro Padre Pio, tenta di estorcere al fratello di questi la somma di 5.000 lire;
 Affronta il potentissimo Padre Gemelli e lo invita a ristabilire la verità in relazione all’incontro con il frate di Pietrelcina, ricordandogli che lui ( il Brunatto ) era stato presente al fatto e poteva testimoniare che le stimmate, contrariamente a quanto andava affermando, non era riuscito a “visitarle”;;
 Scoprì che un sacerdote, aiutante del vescovo di Manfredonia ( grande accusatore del frate), era stato da questi reintegrato nel suo ministero pur dopo essersi macchiato di atti di sodomia;
 Partecipò alla destituzione del predetto vescovo, Pasquale Gagliardi, rivelando il contegno poco “sacerdotale” che questi aveva tenuto nei confronti di una suora e di alcune penitenti.
Tutto dimostrò e trovò opportuni testimoni.
Ma non basta, al fine di far palese che le calunnie contro Padre Pio erano non solo false, ma anche mosse da sacerdoti e prelati indegni degli abiti che portavano, tanto si diede da fare da riuscire ad accumulare una enorme mole di materiale compromettente per i denigratori. E con questa documentazione scrisse il primo dei due libri di denuncia da lui redatti: Lettera alla Chiesa.
Scelse una tipografia tedesca, fece stampare mille copie del suo lavoro e quindi immagazzinò il tutto, compresi i cliché, in un locale ubicato nella città di Monaco di Baviera. Con in mano un simile potenziale, unitamente all’amico Morcaldi, cercò di scardinare la resistenza della Santa Sede a rivedere la propria posizione nei confronti dello stigmatizzato del Gargano, facendo leggere alcune copie del libro a cardinali e monsignori e minacciando la diffusione del testo in caso non fossero state tolte le restrizioni a Padre Pio. Forse un ricatto, ma a mali estremi estremi rimedi. L’effetto fu dirompente, la Curia romana rimase attonita di fronte alle denunce attendibili contenute in quell’elaborato, ma per una serie di circostanze rimase anche ferma nelle sue posizioni. Brunatto non si diede per vinto, e qualche tempo dopo mise mano ad un altro volume, volto ad allargare il campo di denuncia contro il clero già contenuto nel precedente lavoro. L’opera recava un titolo che era tutto un programma: Gli Anticristi nella Chiesa di Cristo.
Questa volta, la Chiesa prima della distribuzione nelle librerie del volume intervenne, ed in data 16 luglio 1933 il Sant’Uffizio abrogò progressivamente tutte le restrizioni che costringevano il Santo a vivere isolato. Lo fece, però, ammantando l’abrogazione di una aureola di “perdono”, dato che, mai nei secoli, detto alto Ufficio aveva contraddetto se stesso annullando una sua precedente decisione. Ma tant’è lo scopo era stato raggiunto.

^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^^
Fin qui abbiamo detto del Brunatto “difensore” di Padre Pio. Ma v’è anche un Brunatto amministratore di beni del frate. La storia l’ha rivelata in “Padre Pio – Un santo fra noi -, edizioni Mondatori, il già precedentemente citato biografo del santo, Renzo Allegri.
“Nel 1929 la contessa Bajocchi ottenne una grande grazia per intercessione del Padre. In riconoscenza, la nobildonna mise a disposizione di Padre Pio i guadagni che sarebbero arrivati dallo sfruttamento di una serie di brevetti che avrebbero dovuto rivoluzionare il sistema ferroviario mondiale, sostituendo le locomotive a vapore con quelle diesel. I brevetti erano degli inventori Fausto Zarlatti e Umberto Simoni, e per lo sfruttamento era stata costituita la società Zarlatti. Per intervento della contessa Bajocchi, nella società fu chiamato anche Padre Pio che si fece rappresentare dal suo amico Emanuele Brunatto. Si sa, da lettere e biglietti autografi, contenenti istruzioni precise, che Padre Pio seguì sempre personalmente le vicende di questa società, guidando Brunatto. Lo invitò, per esempio, a trasferirsi a Parigi e a costituire in quella città una consorella della Zarlatti, in modo da evitare le lungaggini burocratiche italiane. Brunatto fece affari a Berlino, a Bruxelles, e persino nell’Unione Sovietica. … La cessione dei brevetti all’estero aveva dato buoni frutti. Forte di questo appoggio economico, Padre Pio decise di dare il via in modo concreto al suo progetto, il grande ospedale.
Quanto sopra sta a dimostrare l’enorme fiducia che il frate nutriva per il Brunatto, il quale, non solo in passato si era dato da fare per difenderlo dalla stessa Chiesa, ma adesso si adoprava al fine di procurargli i finanziamenti da utilizzare per la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza. Ed infatti, il 9 giugno 1941, a mezzo di una banca italo-francese ecco che da Parigi giunge un accreditamento di 3 milioni e mezzo di Franchi francesi; beneficiario il Comitato per la costruzione della clinica di san Giovanni Rotondo. Per quel tempo una somma enorme.
Da quel momento la storia del piccolo paese sul Gargano cambiò radicalmente, e più che negli anni precedenti, in un crescendo impressionante, quel suolo già poverissimo, ove per una donna acquistare uno scialle per l’inverno era un lusso, ove passò San Francesco nel 1216 diretto a Monte Sant’Angelo, ove dimorò San Camillo De Lellis, ove tra briganti e pastori la vita trascorreva magra e senza speranza, quel suolo s’avviò a divenire, per numero di pellegrini, uno dei centri mondiali della cristianità.
Questa grande rivincita Emanuele Brunatto oggi non la può vedere, così come non poté assistere alle ultime ore del suo frate, quel mattino del 23 settembre del 1968 quando le porte del cielo si aprirono per ricevere un nuovo santo. Brunatto era morto a Roma tre anni prima, nel 1965, si dice in circostanze misteriose.
Un giorno Padre Pio disse: “Non entrerò in Paradiso se non quando l’ultimo dei miei figli spirituali sarà entrato anch’egli”. Chissà se ancora attende Emanuele, l’uomo dalle mille personalità, dai mille mestieri ma di una fede sola, magari intrattenendosi sulla soglia del cielo con Don Bosco. Tra santi, si sa, nell’attesa ci si fa buona compagnia.

Giuseppe Rinaldi

girinaldi@libero.it

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

CAPTCHA ImageChange Image

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Traduci
Facebook
Twitter
Instagram
YouTube