Coronavirus. Fino a quando ci sarà un potenziale contagio siamo tutti a rischio. Altro che convivenza 

Arte, Cultura & Società

Di

 
Pierfranco Bruni

Mi pare un dilaniarsi a distanze ravvicinate da coronavirus che farnetica tra la vita la malattia la morte. Ci accapigliamo per letture politiche su una questione di  primo impatto che è quella della sopravvivenza. Dopo aver scritto ed espresso il mio parere su questo attuale Governo e sul presidente del consiglio, posizione che non arretra minimamente, mi rendo conto che diventa tutto banale. Tranne la malattia. 

Si muore. Questo è il punto. La situazione che ci fa restare tutti in casa, anche in questi giorni, è drammatica perché si gioca un conflitto tra l’uomo e l’economia. Tra la civiltà e i mercati internazionali. Siamo tragicamente considerati degli automi. Non decidiamo nulla. Noi uomini. 

La ripresa non ci sarà fino a quando gli uomini non di sentiranno sicuri. La sicurezza non viene dalla monetizzazione del mercato, bensì dalla libertà dei popoli. La libertà qui è sicurezza di agire. Non di tratta di fasi o convivenze. Si tratta piuttosto di essere garantiti. Ma nessuno potrà garantirci fino a quando avremo un solo caso di coronavirus. 

È entrata nella scacchiera delle esistenze il contagio e quindi il timore di incontrare l’altro. Questa è una realtà complessa. Chi dovrà o potrà gestirla? Il Governo? In un tempo di mediocrità tutto diventa fragile. Abbiamo la mediocrità che gestisce. 

L’uomo è diventato un minuscolo oggetto che vaga tra una fila e l’altra di vittime sacrificali. Stiamo vivendo una rivoluzione antropologica silente ma paradossale. Non ci sono geni ma uomini così mediocri a governarci che indeboliscono tutte le nostre sfere di certezza. Con la morte delle filosofie, perché sono morte per davvero, tutto si è indebolito. Diventando tutto leggero anche la vita umana non ha più peso di senso e di orizzonte. 

La mediocrità ci condannerà sempre più. Accanto ad essa la incoerenza e il fallimento della storia. Non si tratta di una epidemia soltanto. Si tratta invece di un pandemonio ontologico. Si colpisce il corpo con il coronavirus ma con il terrore della paura della malattia si ferisce definitivamente l’anima e il pensare. Cosa fare? Cercare di essere uomini nella centralità della civiltà. Pongo un problema antropologico e non solo sanitario ed economico. Non ci sono parole metafisiche che possano scavare il pensare dell’anima. 

La preghiera è diventata una metafora. Allora? Pavese diceva che nei grandi momenti tragici o ci si salva da sé o nessuno ci salverà. L’uomo deve salvarsi da solo conoscendosi di più senza affidarsi ad una inutile politica di mediocri e inesistenti. 

La religione? Certo. Ma anche lei sta venendo meno. Poniamoci al centro come ribellione di (e a)  un sistema eco-finanziario con la forza tra fedeltà e ragione di un antropos che è logos.  

Avremo il coraggio? Occorre necessariamente una volontà di Potenza. L’uomo al centro e la fiducia in un Dio indelebile. Guardiamo alla politica con distacco perché è fatta di macerie e mediocrità. Sosteniamoci come civiltà. Siamo convinti che fino a quando ci sarà un solo contagiato saremo tutti a rischio. Altro che convivenza.

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