La Tunisia si appresta ad affrontare uno dei momenti più delicati per l’esito del processo di trasformazione istituzionale e democratizzazione iniziato nel 2011 con la caduta del regime dell’ex presidente Zine el-Abidine Ben ‘Ali. A distanza di più di otto anni, il paese è ancora in una fase di transizione che lo rende potenzialmente fragile e che fa sì che rimangano ancora in piedi tutte le incertezze e le incognite legate all’effettiva riuscita o meno del passaggio da un regime autoritario a un sistema pienamente democratico. Nei prossimi mesi si terranno due appuntamenti fondamentali per il futuro del paese: il ballottaggio per le elezioni presidenziali e le consultazioni parlamentari. Dopo la scomparsa del presidente Beji Caid Essebsi, avvenuta lo scorso 25 luglio, si è imposto un cambiamento nell’agenda elettorale, per il quale le elezioni presidenziali – che si sarebbero dovute svolgere dopo quelle parlamentari – sono state anticipate al 15 settembre. Tale stravolgimento ha spostato l’attenzione mediatica e politica verso la competizione presidenziale, conferendole una centralità che altrimenti, per effetto del nuovo assetto istituzionale post-2011, sarebbe spettata in misura leggermente maggiore alle elezioni parlamentari.
Il paese si prepara dunque a scegliere – per la seconda volta dopo il 2014 in maniera democratica e nel quadro di un processo pluralista – il proprio capo dello Stato, in un clima generale di disillusione nei confronti della politica “tradizionale”. L’elettorato, come del resto ampiamente confermato dal risultato del primo turno delle presidenziali, risulta deluso dall’azione dei protagonisti politici della fase post-rivoluzionaria e ciò si traduce da un lato in un basso tasso di affluenza alle urne e di partecipazione diretta ai processi elettorali, e dall’altro nell’emergere di attori indipendenti che mirano a presentarsi come una reale alternativa ai partiti politici attuali, giudicati spesso come un elemento di continuità con il vecchio regime, piuttosto che di vera e propria rottura con il passato. A pesare su tale percezione, continuano a rimanere quei fattori che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato negativamente l’andamento del paese, soprattutto una persistente crisi economica e, in parte come conseguenza, una diminuzione della sicurezza sia a livello sociale sia in termini di tentativi di destabilizzazione dell’attuale sistema politico-istituzionale per mano di elementi fondamentalisti di natura islamista. Qualsiasi sia il risultato delle elezioni presidenziali, il nuovo capo dello Stato avrà il difficile compito di riconciliare le diverse anime della società tunisina e di far rinascere in loro la fiducia nelle istituzioni che sembra in gran parte andata perduta dopo otto anni di stallo politico ed economico.
Quadro interno
Il 25 luglio scorso, all’età di 93 anni, muore il presidente della repubblica Beji Caid Essebsi. Quest’ultimo è stato una figura di spicco della storia contemporanea della Tunisia, al punto tale che secondo molti tunisini stessi e molti analisti potrebbe essere definito una sorta di secondo “padre della patria” dopo Habib Bourguiba, leader della lotta indipendentista dalla Francia negli anni Cinquanta del secolo scorso, fondatore e primo presidente della Tunisia indipendente. Sicuramente, Essebsi è stato un personaggio centrale nella vita politica tunisina, al pari di quanto sia stato un attore controverso. Già ministro dell’Interno sotto Bourguiba nella seconda metà degli anni Sessanta e, successivamente, sempre sotto Bourguiba ministro della Difesa e degli Affari Esteri, ha ricoperto importanti ruoli istituzionali anche durante il regime di Ben ‘Ali. Questo curriculum faceva di Essebsi un personaggio non del tutto avulso dalle dinamiche politiche del paese durante i decenni di autoritarismo che hanno preceduto la caduta del regime nel 2011. Tuttavia, Essebsi allo stesso tempo è stato in parte il garante della transizione, ricoprendo il ruolo di primo ministro ad interim nella delicatissima prima fase dal febbraio al dicembre del 2011. Nonostante i suoi legami con i precedenti regimi, Essebsi si è rivelato un leader molto popolare, al punto tale che nel 2014, alle prime elezioni presidenziali democratiche e pluraliste della storia del paese, è stato eletto presidente della repubblica dopo aver fondato il suo partito Nidaa Tounes, che si proponeva di essere una piattaforma di natura secolarista in opposizione alla contestuale ascesa politica di Ennahda, partito conservatore di tradizione islamista moderata, divenuto a seguito delle elezioni del 2011 il primo partito tunisino. Da un lato, la vittoria di Essebsi per la corsa presidenziale e, contemporaneamente, quella del suo partito alle elezioni parlamentari dello stesso anno, è stata dovuta alla polarizzazione della società tunisina in seguito all’ascesa di Ennahda e alla nascita di un fronte “anti-islamista” che si poneva l’obiettivo di contrastare il partito di Ghannouchi. Dall’altra parte, però, è indiscutibile che la stessa natura di Nidaa Tounes fosse troppo eterogenea per poter proporre un programma politico alternativo e concreto, così come il fatto che l’ideologizzazione della politica tunisina nei due fronti cosiddetti “islamista” e “secolare” abbia prodotto l’effetto di bloccare l’attività di governo e di produrre uno stallo in termini di riforme, impedendo al paese di progredire dal punto di vista economico e dello sviluppo sociale e infrastrutturale. L’eredità che lascia Essebsi, dunque, è anche quella di un paese di fatto spaccato in due e, all’interno del cosiddetto fronte progressista, diviso ulteriormente in una miriade di correnti e movimenti. Anche per questo motivo le elezioni presidenziali del 2019 hanno una rilevanza storica e potrebbero segnare una svolta nel processo di democratizzazione della Tunisia. A scontrarsi vi erano tutte le anime del paese, dai rappresentanti più tradizionalisti – se non addirittura nostalgici del vecchio regime benalista, come nel caso della candidata del Partito desturiano libero Abir Moussi – a quelli facenti parte dell’establishment dei più importanti partiti, fino agli indipendenti e ad alcune nuove figure che si propongono come elementi di novità e rottura rispetto alla politica tradizionale, come nel caso del magnate delle telecomunicazioni Nabil Karoui, definito da molti una sorta di “populista” tunisino, e del costituzionalista Kais Saied. Proprio questi due ultimi candidati, in parte a sorpresa, sono stati i più votati e, dunque, andranno al ballottaggio che si svolgerà tra la fine di settembre e la metà di ottobre.
L’anticipazione delle elezioni presidenziali per via della scomparsa dell’ex presidente Essebsi, ha invertito il calendario dei due appuntamenti elettorali che avrebbero atteso i tunisini durante la seconda metà del 2019. Ciò vuol dire che l’elezione del presidente assumerà una natura quanto mai politica nel vero senso del termine e, in parte, fungerà da termometro per le scelte dei tunisini alle elezioni parlamentari, avendo potenzialmente la capacità di influenzare addirittura il voto degli elettori per la scelta del rinnovo delle forze politiche che compongono il parlamento. Alla luce di tale novità, anche Ennahda, che tradizionalmente aveva scelto di non candidare propri rappresentanti per la corsa presidenziale, ha messo in campo una propria personalità di primo piano che concorresse alla più alta carica dello Stato, Abdelfattah Mourou. Sembra evidente, infatti, che chi vincerà le presidenziali potrebbe godere di un vantaggio – in termini di popolarità – anche alle elezioni politiche e, quindi sperare di capitalizzare il risultato ottenuto. A tal proposito è utile ricordare come, dopo la riforma costituzionale approvata definitivamente nel 2014, la Tunisia sia passata da un sistema puramente presidenziale (in cui il capo dello Stato godeva di fatto di pieni poteri pressoché illimitati) a un sistema più simile al semi-presidenzialismo francese. Nel nuovo ordine istituzionale, il presidente della repubblica mantiene prerogative importanti soprattutto nel settore della difesa, della sicurezza e dell’indirizzo di politica estera del paese, ma il suo ruolo è limitato e bilanciato da quello dell’esecutivo e del primo ministro, espressione della maggioranza del parlamento. La stessa figura del presidente è stata al centro del dibattito politico che ha preceduto le elezioni presidenziali, dal momento che alcuni candidati (soprattutto l’ex ministro della Difesa Abdelkarim Zbidi, appoggiato da Nidaa Tounes) hanno paventato il ritorno a un sistema presidenziale puro, per contrastare l’influenza di alcune forze politiche, in maniera particolare Ennahda, possibile grazie all’eventuale risultato positivo alle elezioni parlamentari.
Il testa a testa tra Saied e Karoubi conferma il clima di disillusione e avversione nei confronti del “sistema” che si respira nel paese. Tutti e due sono degli outsider rispetto ai partiti politici tradizionali, che hanno visto pesantemente ridursi la loro popolarità. Da un lato, Saied è espressione di una sorta di ultra-conservatorismo che si oppone ad alcune scelte prese dai governi precedenti (ad esempio si è espresso contro la legge sulla parità tra uomini e donne e contro la cancellazione della pena di morte) e mira a conquistare i settori più tradizionalisti della società tunisina. Dall’altro lato, Karoubi rappresenta quel messaggio anti-sistemico e per alcuni versi “populista” che in altri contesti è stato utilizzato da altri leader politici per ottenere consensi puntando il dito contro la corruzione dell’apparato esistente e l’immobilismo politico. Quest’ultimo, tra l’altro, è stato indubbiamente avvantaggiato dall’utilizzo del proprio impero mediatico per ottenere maggiore visibilità, al punto che in molti paragonano la sua ascesa politica a quella di Silvio Berlusconi in Italia negli anni Novanta.
Il voto è stato caratterizzato da un forte astensionismo (soltanto il 45% degli aventi diritto al voto si è effettivamente recato alle urne) e sembra dare alle tendenze conservatrici e progressiste della Tunisia due nuovi punti di riferimento, sebbene le incognite circa la possibilità che queste due forze anti-sistema (soprattutto Saied, che non ha una forte struttura alle spalle) possano dare le risposte di lungo termine di cui il paese ha bisogno e la stabilità necessaria per formare governi duraturi. Il voto delle elezioni parlamentari e il posizionamento che i partiti decideranno di prendere nella corsa presidenziale potrà definire i nuovi equilibri, anche se non è escluso che il risultato di questo primo turno di presidenziali possa favorire un riavvicinamento tra le forze politiche tradizionali, pur sulla carta avversarie tra di loro.
Alla base del diffuso malcontento che si manifesta nel paese, così come della disillusione che molti cittadini percepiscono circa il processo di democratizzazione e cambiamento politico in atto, vi sono oggettive difficoltà per la Tunisia di uscire da una grave crisi economica che si ripercuote su ampie fette della società. Tale crisi è composta da fattori strutturali, come l’alto tasso di disoccupazione e le evidenti disparità regionali in termini di sviluppo e servizi, ulteriormente aggravati da fattori più propriamente congiunturali, costituiti dall’instabilità politica, dalla resilienza di alcuni settori sociali e istituzionali di fronte ai tentativi di riforme e dall’emergere della minaccia alla sicurezza del paese rappresentata dalle forze estremiste di natura islamista. La Tunisia fa fatica a uscire da una crisi economica che, pur affondando le sue radici ben prima del 2011, si è acuita con il passare degli anni e non accenna a mostrare segni di miglioramento. Il sistema tunisino sembra non essere in grado di recuperare le deficienze accumulate nel corso del tempo e, in assenza di chiare linee di policy e di uno strutturato programma di riforme, il rischio è che la situazione di stallo continui a persistere. L’alto tasso di disoccupazione (in media al 15% ma con punte fino al 30% in alcune regioni periferiche del centro e del sud e tra alcune fasce di popolazione, in particolar modo i giovani laureati) rappresenta uno dei vettori del malcontento sociale e della stagnazione economica. A fianco di tale piaga strutturale, una serie di fattori che ha contribuito a peggiorare la percezione che i cittadini hanno della propria condizione economica e sociale. Negli ultimi due anni, la moneta tunisina – il dinaro – si è deprezzata quasi del 35%, producendo tassi di inflazione alti con ricadute immediate ed evidenti sulla vita quotidiana dei tunisini, in particolar modo per le fasce di popolazione a basso reddito.
Inoltre, la Tunisia soffre di un debito pubblico sempre più alto, che ha superato il 75% del Pil (prima della caduta di Ben ‘Ali si attestava intorno al 35% del Pil) e che lo rende particolarmente esposto alle pressioni internazionali. In tale contesto, i tentativi di aggiustamento per soddisfare le condizioni poste dalle organizzazioni internazionali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) per i prestiti concessi rischiano di rendere la situazione ancora più difficile per le classi sociali più deboli. Mai come negli ultimi due anni si sono tenute così tante manifestazioni e scioperi contro le misure di austerity che inevitabilmente i governi hanno dovuto adottare per far fronte alle richieste dei donatori. Le stesse forze sindacali, storicamente molto influenti nel paese, hanno spesso funto da freno rispetto ad alcune riforme che pure sarebbero necessarie e ciò dà il senso di quanto sia difficile, in simili condizioni, immaginare un’azione di governo incisiva che possa far ripartire i maggiori settori economici e imprimere al sistema tunisino i cambiamenti necessari per uscire dalla crisi.
Quadro internazionale
La Tunisia intrattiene buone relazioni sia con i paesi della regione sia, a livello internazionale, con i maggiori partner europei ed extra-europei. Dal punto di vista dei rapporti regionali, particolare importanza rivestono le relazioni con l’Algeria, partner fondamentale nel settore della sicurezza e dell’antiterrorismo, oltre che nella lotta ai traffici e alla criminalità di tipo transfrontaliero. L’instabilità che ha interessato – e potenzialmente ancora interessa – questo vicino per via delle proteste che, nella scorsa primavera, hanno portato alle dimissioni dell’ex presidente Bouteflika, è motivo di preoccupazione per le autorità tunisine, dal momento che il paese potrebbe risentire direttamente della crisi politica algerina in termini di sicurezza. D’altro canto, la situazione nell’altro vicino regionale, la Libia, fa sì che anche nel proprio confine orientale la Tunisia risenta delle problematiche di sicurezza derivanti dalla persistenza di un conflitto che va avanti da diversi mesi.
Dal punto di vista internazionale, la priorità della Tunisia è quella di mantenere buoni rapporti con l’Unione Europea e, in particolar modo, con quelli che sono i due partner principali sia dal punto di vista politico, sia economico e commerciale: Francia e Italia. Con quest’ultimo paese esistono diversi settori prioritari di cooperazione, non ultimo quello della lotta congiunta all’immigrazione irregolare. Nonostante il drastico calo degli arrivi irregolari in Italia durante gli ultimi due anni, infatti, i tunisini rappresentano dal 2018 a oggi la prima nazionalità di provenienza dei migranti irregolari che sbarcano in Italia. Per far fronte a questa situazione, i due governi hanno stretto diversi accordi e la Tunisia è uno dei cinque paesi con cui il governo di Roma ha degli accordi bilaterali sul rimpatrio degli irregolari presenti sul territorio italiano.