Dall’inizio dell’anno il conflitto siriano può essere diviso, a fini di analisi, in due fronti principali e per molti versi indipendenti l’uno dall’altro: il fronte di Idlib e quello del nord-est. La regione intorno alla città di Idlib, nel nord-ovest della Siria, rappresenta infatti l’ultimo bastione territoriale nelle mani dell’opposizione armata al regime di Bashar al-Assad. Essa è l’ultima delle quattro aree di de-escalation create all’interno del framework diplomatico di Astana a cui hanno preso parte Russia, Iran e Turchia. Create come aree di cessate-il-fuoco volte a permettere accordi di riconciliazione tra regime e opposizione, le zone di de-escalation si sono però presto rivelate come un abile espediente tattico che ha permesso al regime e ai suoi alleati di concentrare le proprie forze militari nella riconquista di un’area alla volta (il nord delle province di Hama e Homs, il sobborgo damasceno di Ghouta e i territori del sud-ovest compresi tra la provincia di Daraa e quella di Qouneitra). A una parte consistente delle forze ribelli sconfitte è stata offerta la ricollocazione nell’area di Idlib, l’ultima rimasta, in cui si sono riversati, oltre ai combattenti, anche centinaia di migliaia di civili in precedenza residenti nelle regioni riconquistate dal regime. Oggi intorno a Idlib si concentrano tra i 2 e i 3 milioni di persone, in maggioranza civili. L’area è dominata per gran parte dalle forze estremiste legate al gruppo di Hayat Tahrir al-Sham (in precedenza nota come Jabhat al-Nusra), mentre alcune sacche permangono sotto il controllo di gruppi vicini alla Turchia e afferenti all’Esercito Nazionale, organizzazione ombrello che racchiude la maggior parte delle milizie siriane sostenute da Ankara.
Il governo turco ha interesse primario a evitare un’escalation incontrollabile in questo quadrante che potrebbe causare una nuova ondata di profughi diretti verso il proprio territorio, dove dall’inizio della crisi si sono già riversati oltre 3,5 milioni di siriani. Per questo motivo, nel settembre 2018 Erdoğan e Putin raggiungono un accordo per la formazione di un’area demilitarizzata intorno alla zona di de-escalation sorvegliata da posti di osservazione dell’Esercito turco, in cambio Erdoğan avrebbe dovuto assicurare il disarmo e ridurre il controllo dei gruppi più estremisti presenti nell’area. Nei mesi seguenti i turchi hanno però fallito l’obiettivo, portando nella primavera di quest’anno alla ripresa dell’offensiva di Assad, coadiuvata dall’aeronautica russa. Dopo alcune sconfitte, la situazione militare ha cominciato a pendere decisamente a favore di Damasco, che ha riconquistato alcuni villaggi chiave come Khan Sheikhoun, cittadina rimasta fuori dal controllo del regime per cinque anni.
Nel frattempo, dall’inizio dell’anno si sono susseguiti i round di negoziazione tra Turchia e Stati Uniti per la formazione di una zona demilitarizzata lungo il confine nord-orientale tra i due paesi. La Siria orientale è infatti per gran parte controllata dalle Forze Democratiche Siriane (Fds) organizzazione ombrello dominata dalle Unità di Protezione Popolare (YPG), milizia curda che Ankara considera la branca siriana del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk).
Le Fds sono sostenute dagli Usa in funzione anti-IS e reparti americani stazionano nella regione – circa 1000 unità secondo le stime più recenti. A giugno la Turchia ha minacciato una nuova operazione militare lungo il confine contro il Ypg – in aree in cui sono stanziate anche truppe statunitensi – se gli Usa avessero rifiutato ancora la formazione della fascia demilitarizzata. Le mosse turche hanno impresso un’accelerata determinante ai negoziati che in agosto hanno portato a un’intesa la cui reale fattibilità resta però in dubbio.
Idlib
Prosegue l’offensiva del regime siriano sull’area di de-escalation di Idlib iniziata prima dell’estate nonostante il cessate-il-fuoco annunciato dalla Russia il 30 agosto. La gestione dell’offensiva sta mostrando le prime crepe nella tattica adottata da Mosca mirata a conciliare gli interessi, spesso scarsamente compatibili, di tutti i principali attori coinvolti. A farne le spese nell’ultimo mese sembrano essere state soprattutto le relazioni con la Turchia, paese Nato che nel corso degli ultimi due anni la Russia è riuscita a portare vicino alla propria orbita e spesso in rotta di collisione con gli alleati occidentali, soprattutto gli Stati Uniti. A luglio Mosca aveva infatti concluso le prime consegne alle forze armate turche del sistema missilistico S400, il cui acquisto è stato fortemente osteggiato da Washington. Su pressione del Pentagono, l’Amministrazione Trump ha immediatamente escluso la Turchia dal programma F-35, segnando un ulteriore peggioramento nelle relazioni tra i due paesi. Durante la visita del presidente Erdoğan in Russia a fine agosto Putin aveva addirittura offerto alla sua controparte turca di rimpiazzare gli F-35 con nuovi jet russi di ultima generazione. Il clima tra i due leader si è però presto raffreddato durante l’incontro bilaterale sulla situazione a Idlib.
Mentre da una parte Putin riconosceva la necessità per la Turchia di evitare una nuova grande ondata di profughi diretti verso i suoi confini, dall’altra non offriva alcun tipo di chiarimento sulle modalità in cui gli interessi turchi avrebbero potuto essere effettivamente garantiti. La titubanza russa si sarebbe concretizzata nei giorni seguenti. Probabilmente per andare incontro alle pressioni di Ankara i russi hanno infatti proclamato un cessate-il-fuoco che avrebbe dovuto essere applicato dal regime siriano a partire dal 31 agosto. Nonostante da allora l’offensiva si sia in parte ridimensionata, non sono però cessati i bombardamenti e le principali operazioni di terra condotte da Damasco. Centinaia di migliaia di profughi avrebbero già lasciato le zone del fronte per dirigersi verso nord in prossimità del confine turco e si registrano già centinaia di tentativi di attraversamento respinti, anche violentemente, dalle forze di sicurezza turche.
Tali sviluppi hanno fatto sorgere numerosi dubbi sull’effettivo leverage di Mosca sul regime di Assad in questa fase e, conseguentemente, sulla capacità di Putin di riuscire a mantenere gli ottimi rapporti stabiliti recentemente con Erdoğan, rapporti che hanno fatto temere in più occasioni un allontanamento strutturale di Ankara dall’orbita occidentale. In aggiunta, sembra ormai esauritasi la capacità di mediazione e ricomposizione della crisi siriana che il framework trilaterale di Astana aveva saputo esprimere nell’ultimo biennio. Oltre all’incapacità di trovare una quadra sulla questione di Idlib, infatti, le parti non hanno saputo finora portare a termine la composizione di quel Comitato costituzionale formato da rappresentanti del regime e dell’opposizione moderata che avrebbe dovuto condurre a una fase di limitata transizione politica con il supporto sia di Russia e Iran, alleati di Assad, sia della Turchia, principale sponsor dell’opposizione al regime. Le insistenze di Mosca per la formazione di tale Comitato, ripetutamente ignorate da Damasco, sembrano confermare i dubbi sull’effettiva influenza russa sul governo siriano in questa fase in cui il regime non vede più la propria sopravvivenza in pericolo.
Il venire meno di tutti i principali framework diplomatici e della capacità di Mosca di imprimere leverage sul proprio alleato siriano, soprattutto riguardo all’offensiva su Idlib, potrebbe presto portare a ulteriori escalation militari nel quadrante di Idlib con il rischio di coinvolgere direttamente anche reparti militari turchi. Per la Turchia, infatti, mantenere il controllo – diretto o attraverso i suoi proxy siriani – di almeno una parte dell’area è fondamentale per evitare nuove ondate di profughi, soprattutto visto il recente aumento di malcontento tra la popolazione turca per la presenza di milioni di profughi siriani nel paese. Al fine di trovare solidarietà e sostegno su questo punto anche tra le cancellerie europee, nelle settimane scorse Erdoğan ha minacciato di riaprire i flussi migratori verso l’Europa – come nel 2015 portando all’arrivo di circa un milione di profughi siriani diretti primariamente in Germania – se la Turchia dovesse alla fine trovarsi costretta ad accogliere altre centinaia di migliaia di rifugiati. Le conseguenze di una mancata soluzione potrebbero quindi anche riverberarsi presto sui paesi membri dell’Unione Europea.
Il nord-est
Nel nord-est della Siria procedono le operazioni per l’applicazione dell’accordo turco-americano che dovrebbe stabilire una safe zone (o “security mechanism”, a seconda delle interpretazioni) lungo l’intero confine nord-orientale tra Turchia e Siria. La leadership delle Fds ha finora rispettato le clausole dell’accordo che prevedevano il loro ritiro dalla fascia territoriale interessata, mentre l’8 settembre unità militari americane e turche hanno annunciato di aver iniziato operazioni di pattugliamento congiunte nell’area. Queste prime fasi di applicazione stanno però facendo emergere rapidamente tutti i non-detti e le contraddizioni dell’intesa turco-statunitense, che potrebbero presto comprometterne la tenuta. Le due parti non sarebbero infatti riuscite nemmeno a raggiungere un accordo conclusivo sulla definizione dell’area demilitarizzata: “safe zone” per i turchi, “security mechanism” per gli americani. Il dettaglio non è da poco in quanto implica un uso assai diverso: per i turchi, infatti, tale area dovrebbe diventare un territorio di fatto amministrativamente controllato da Ankara dove poter ricollocare una parte significativa – 1 milione secondo le dichiarazioni del governo turco – degli oltre 3 milioni e mezzo di rifugiati siriani attualmente presenti in Turchia. Ciò avrebbe naturalmente un impatto enorme sugli equilibri demografici dell’intero nord-est siriano, oggi a maggioranza curda, che potrebbe, soprattutto lungo il confine, diventare così un territorio a maggioranza araba.
Gli americani e i loro alleati delle Fds hanno finora utilizzato, invece, il termine di “security mechanism”, con il quale sembrano voler intendere un’area demilitarizzata per un tempo indefinito dove nessun intervento significativo è permesso alle parti contraenti, tantomeno una massiccia iniezione di popolazione. Secondo i comunicati diramati durante i mesi estivi, inoltre, una delle clausole richieste dal comando delle Fds per accettare l’accordo sarebbe stata il rifiuto di qualunque presenza militare turca nell’area interessata. Ciò ovviamente è in contraddizione con i pattugliamenti congiunti annunciati recentemente da Ankara e Washington. Ma i contrasti su definizioni e gestione del confine celano differenze ancora più profonde tra Turchia e Stati Uniti che potrebbero incrinare un rapporto già molto deterioratosi negli ultimi anni.
Mentre dalle dichiarazioni turche emerge chiaramente come la safe zone appena costituita sia intesa come uno strumento volto a debellare completamente la presenza dell’Ypg nel nord siriano, risulta sempre più chiaro come per gli americani l’accordo rappresenti invece un modo per tranquillizzare Ankara, evitando che un intervento militare turco nel nord-est della Siria metta in pericolo il consolidamento territoriale delle Fds e, di conseguenza, dell’Ypg.
In assenza di un ritiro americano nel breve termine – nonostante l’annuncio di Trump in senso contrario nel dicembre scorso – e data l’incapacità di raggiungere un accordo soddisfacente tra Damasco e rappresentanze del Pyd (il braccio politico dell’Ypg) per una loro autonomia curda all’interno di una Siria riunificata, i territori attualmente sotto controllo delle Fds sarebbero quindi destinati a costituire un’entità di fatto scollegata dal regime di Assad e sostenuta dagli Stati Uniti (a cui potrebbe aggiungersi una presenza permanente di alcuni contingenti europei). Quelle di Washington e Ankara sono, quindi, due visioni di lungo termine radicalmente diverse, fatto che potrebbe portare al fallimento dell’intesa già entro la fine dell’anno. Nodo cruciale su cui potrebbero emergere le prime serie diatribe tra le due parti è costituito dai centri abitati più grandi a maggioranza curda posti in prossimità del confine. La fascia demilitarizzata ha infatti attualmente una larghezza variabile – dai 5 ai 14 km – e non comprende formalmente i più grandi centri a maggioranza curda localizzati nelle sue vicinanze, come Tel Abyad, Qamishli e Kobane. Tali centri sono posti sotto il controllo di consigli locali strettamente controllati da personalità vicine all’Ypg. Ankara ha già fatto sapere di non poter accettare tale status quo, soprattutto a Tel Abyad, e di voler includere nell’accordo turco-statunitense anche un passaggio di mano di tali centri sotto amministrazioni non influenzate in alcun modo dall’Ypg e, con ogni probabilità, controllate direttamente o indirettamente dalle autorità turche; una clausola che difficilmente gli americani sarebbero in grado di far accettare alle Fds. Già all’inizio di autunno, quindi, l’intesa turco-americana potrebbe essere pericolosamente messa alla prova, con il rischio concreto di un collasso repentino dell’accordo e di un nuovo deterioramento nelle relazioni tra Washington e Ankara.